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Chelsea Hodson, Stanotte sono un’altra

Una composizione di fiori di campo e foglie di papavero: margherite rosa, fiordaliso azzurri, papaveri rossi e simil margherite gialle.

Chelsea Hodson sembra saper aggirare quel passaggio obbligato quando si parla di personaggi millennial e, più nello specifico, di donne millennial: il momento Sally Rooney.

Che venga usato nei lanci delle nuove uscite o come termine di paragone nella critica successiva, Rooney pare eletta all’unanimità come portavoce di un’intera generazione e tutte le autrici, in qualche modo, sembrano rifarsi a lei. Lo si fa per una questione di spendibilità commerciale, certo, nonché per individuare un’unica voce rassicurante e riconosciuta che parli per tutti, liberandoci dal peso dell’intersezionalità. Voglio compiere, allora, un passo laterale verso un altro tipo di millennial, quella che Chelsea Hodson racconta in Stanotte sono un’altra, tradotto da Sara Verdecchia per Pidgin edizioni.

Un memoir in forma di saggi lirici imperfetto in certi frangenti, più solido in altri, ma con l’obiettivo finale di indagare la vita e i ricordi di una donna millennial, la sua idea di desiderio, amore, arte e futuro. Quella di Hodson non è una everywoman, un prototipo per tutte, ma è una versione romanzata dell’autrice stessa perché il personale è politico, e il personale di Hodson è ancora più politico e radicale quando indaga il desiderio delle millennial statunitensi e la loro identità. Il racconto delle donne millennial non solo è davvero un genere, ma anche un passo necessario che deve prescindere dall’idolo letterario del periodo.

Photo credits: Alessia Ragno.

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