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Fiore frutto foglia fango di Sara Baume

Una composizione di fiori di campo e foglie di papavero: margherite rosa, fiordaliso azzurri, papaveri rossi e simil margherite gialle.

Letta l’ultima frase di fiore frutto foglia fango di Sara Baume, pubblicato in Italia da NN editore nella traduzione di Ada Arduini, ho provato l’impulso di cercare su Google le foto del cane della scrittrice. Di solito quando finisco di leggere un libro cerco sempre il viso di chi l’ha scritto, questa volta mi serviva conoscere il muso del protagonista. È chiaro che Unocchio, così si chiama, è il cane di Baume, così come è sua anche la solitudine di Ray, l’altro protagonista del romanzo; ma soprattutto è chiaro che solo chi ha vissuto con un cane poteva raccontare così dettagliatamente l’incontro di due anime complementari. Ultimamente ho staccato dal mondo per rincorrere solo i libri che sentivo vicini e in fiore frutto foglia fango ho trovato un tale conforto e vissuto personale che ho detto ad alta voce tanti “No!” durante lettura, soprattutto quando le vicende si scostavano anche minimamente dal destino che attribuisco d’ufficio a tutti i cani: la felicità senza condizioni.
Ray e Unocchio si incontrano in canile e iniziano a sorpresa una vita insieme. Unocchio è aggressivo nei box, morde, abbaia forte; Ray è solo, vecchio, stanco e ha paura degli altri. Lui vorrebbe far dormire il cane in cucina su una vecchia poltrona, ma Unocchio è spaventato dai rumori della casa e dalla solitudine che permea ogni muro. Nei momenti di pace lecca lo sporco dei battiscopa, la polvere, il cibo caduto lì per caso e mastica gli scarafaggi. Ray gli ha regalato una ciotola conquistata con i punti dei cereali e per sfamarlo ricorre a cioccolatini, spaghetti in scatola, burro, sardine e salsicce. Una volta a settimana, il martedì per la precisione, fa scorta in paese e poi torna subito casa, dove Unocchio l’aspetta fiducioso.

Un cane nero corre con una palla in bocca in un campo di erba secca

Pur narrando una malinconica routine, Sara Baume arriva a spiegare in maniera vivida ed eccezionale cosa vuol dire vivere con un cane, la simbiosi che si crea e quell’istinto di amarlo tantissimo, fino quasi ad assimilare gioia e tristezza l’uno dell’altro. Se non hai un cane non sai cosa vuol dire gridargli CORRI! negli spazi aperti e guardarlo prendere velocità con la lingua penzoloni e le orecchie all’indietro; non sai che significa vederlo aspettare con lo sguardo fisso su tutto ciò che le tue mani fanno mentre chiede cibo o attenzioni; non conosci nemmeno i colpetti di muso sul gomito se sei distratto e la coda che prende velocità e sbatte a destra e a sinistra. Le impronte del naso sui vetri della macchina non le hai mai viste, così come non conosci, beato te, il dolore sordo quando il tuo cane, il tuo prolungamento emotivo, aggredisce e tu non hai potuto evitarlo, placarlo, impedirgli di fare e farsi male. Io lo capisco Ray, capisco le scuse frettolose sussurrate a Unocchio, gli errori, l’impotenza davanti agli altri e lo sconforto davanti alla versione feroce e cattiva del cane che ha scelto come compagno. Dopo le regolari aggressioni di Unocchio al mondo esterno, l’istinto di Ray è quello di nascondersi agli occhi degli altri, o meglio nascondere la propria patetica vita con l’illusione che un giorno andrà tutto bene anche senza far nulla. Tuttavia grazie a Unocchio, Ray elabora la sua vita e la socialità complicata, anzi, totalmente inesistente. La sua è una quotidianità ai margini in cui la gente evita il suo sguardo; non è chiaro se l’indifferenza altrui sia nella percezione di Ray, ma poco cambia: ci sono momenti in cui pensieri e realtà si sovrappongono con tale perfezione che diventa impossibile distinguerli.

Solo ora che non ci sei più capisco che sei la ragione per cui faccio le cose.

Dice Ray disperato quando lo perde di vista. Le affinità tra i due si moltiplicano fino a farli combaciare, due facce della stessa solitudine che mettono l’uomo a dura prova emotivamente, ma che gli permettono di rimuginare sugli anni passati a fianco di padre burbero, una madre assente e sulla sua scelta, più o meno consapevole, di rinunciare al mondo che tanto lo spaventa. Ray sente il peso schiacciante degli anni e del caos emotivo che lo investe quando è in preda alla paura, in un ambiente diverso dalla sua rassicurante tana. Eppure fiore frutto foglia fango è un fiorire di gesti d’amore per Unocchio: le carezze sul muso, l’orecchio sul petto per sentirgli il battito del cuore, il cibo condiviso, il sonno sincronizzato. La nobiltà altissima di questi gesti contrasta con l’odore di terra, sangue, sporco e burro rancido che c’è intorno, dettagli su cui Sara Baume si intestardisce, e ha ragione.
E, infine, il cuore si stringe negli ultimi tentativi di ricerca di normalità, quel bisogno insopprimibile di essere come gli altri che investe tutti prima o poi, di sentirsi ordinari, invisibili, e per questo al sicuro, che dura quanto un dolorosissimo lampo prima di farti ripiombare nel dolore che ti governa.
Fiore frutto foglia fango è la cronaca del viaggio di Ray e Unocchio nel «freddo che fa marcire lo spirito», è la metafora di una vita passata a districare pensieri che non sai interpretare, privi di una guida lucida, in balia dell’angoscia. Eppure anche allora, sotto il feroce dominio della paura, l’istinto di sopravvivenza prevale e ha un solo occhio, il pelo ispido e la coda impazzita di un cane “cattivo” chiamato Unocchio.

Per conoscere meglio l’autrice

Leggi l’analisi del nuovo romanzo di Sara Baume, L’occhio della montagna.

Foto di Patrick Hendry su Unsplash.

Foto di copertina di Alessia Ragno.

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