Una vita migliore

La stazione di Molfetta in una giornata di sole
La stazione di Molfetta in una giornata di sole
Stazione di Molfetta, giugno 2010.

Sulla banchina della stazione si inseguono due carte appallottolate, ma nel movimento non si riesce a distinguere quale delle due sia il fazzoletto e quale l’involucro di un gelato. Peppino si concentra per seguire il loro movimento e a guardare bene gli viene il dubbio che la palla di carta più grande possa appartenere a una di quelle merende di cioccolato e biscotto che abbondano nel distributore all’ingresso. Nel pieno della sua analisi, però, le carte finiscono sui binari in un sussulto per poi riprendere a ruotare su loro stesse e l’una intorno all’altra, sfiorandosi più volte e allontanandosi di poco, fino a quando il passaggio di un treno veloce le solleva altissime sopra la tettoia e per almeno dieci secondi, Peppino li conta mentalmente, scompaiono dalla sua vista. Sono andate verso una vita migliore, pensa lui facendosi trasportare dalla coreografia dei due involucri abbandonati, vorrei seguirle fin su nel cielo, aggiunge mentre le immagina nella loro trasformazione da spazzatura a creature dell’aria. Nessuno dei presenti in stazione è attento alle due carte scomparse, sono amiche esclusive di Peppino a quanto pare, ma quando ricadono lontane, dopo che il vortice di vento ha lasciato la stazione, lui sconsolato si dice che si è sbagliato, sono solo spazzatura e nemmeno questa volta hanno cambiato il loro destino. Si intristisce un poco quando prendono a rotolare nella direzione opposta e si perdono per sempre. Peppino immagina di scendere sui binari e riunirle, ma è un pensiero fulmineo che si dissolve nella realtà che lo richiama a sé con gli annunci in diffusione e il passeggio di pochi pendolari accaldati.
Al binario uno sta arrivando il regionale da Bari, sa che è ancora presto per ritornare a casa, ma guarda comunque l’ora sul telefonino per calcolare con esattezza quanto tempo manca all’ora di pranzo. È un rito fondamentale perché gli permette di scandire i tempi della mattina e, cosa più importante di tutte, con la precisione che l’ha sempre contraddistinto riesce a evitare l’ora di punta del panificio sulla strada di casa. Si muoverà a mezzogiorno e quindici così da trovarsi in cucina per le tredici, quando inizia il telegiornale. Ogni giorno intorno al tavolo, con il suo quartino di pane fresco, l’olio buono, le verdure di stagione e una scatoletta di tonno quando è pigro o una frittatina quando ha voglia di cucinare, ci sono Peppino, il giornalista che legge le notizie in tv e il gatto Max sulla sedia libera. Che fortuna che c’è Max, si dice sempre, anche se non risponde mai a nessuna sua domanda, nemmeno un miagolio per tenerlo contento, non si fa accarezzare e vive nell’armadio d’inverno e sulla mensola della finestra d’estate, sempre a debita distanza, a parte quando riconosce l’apertura della scatoletta di tonno.

Da quando è in pensione, un anno esatto a settembre, Peppino passa ogni mattina in stazione. Adesso riconosce i vari dipendenti, i bigliettai, la giovane coppia che gestisce l’edicola senz’aria condizionata, e persino i volti di alcuni pendolari gli risultano oramai familiari. Con qualcuno accenna un saluto cortese, ricambiato con cura, con altre scambia una chiacchiera sul meteo e i ritardi dei treni. La domenica è il giorno più duro: il personale della stazione è ridotto, i pendolari non ci sono, i treni sono di meno, ma Peppino arriva comunque di buon’ora e alle sette e trenta è già sulla panchina della piattaforma principale. Non importa se piove o c’è il sole perché la banchina è riparata e se fa molto caldo è sufficiente aspettare il passaggio del treno veloce che non fa fermata e stride sui binari e negli ingranaggi perché ha fretta di andare. L’aria che smuove gli si infila nella camicia e in quel momento di furia del vento sente di poter essere sincero e immagina di librarsi in aria come le carte abbandonate sui binari. Ultimamente quando è certo di essere solo, soprattutto dopo l’ora di punta o più spesso di domenica, Peppino grida insieme al treno, coperto dai rumori di ferraglia che lo rendono invisibile. Grida spingendosi con le mani sulla panchina per farsi forza, la voce esce con tale impeto che sente le corde vocali strapparsi, ma non gli importa perché così butta fuori i dolori del suo cuore invecchiato di colpo. Quando anche l’ultima carrozza abbandona la stazione, lasciando dietro di sé solo un residuo di vento, Peppino si ricompone, anche se gli occhi rimangono lucidi per un bel po’ dopo ogni seduta. Le chiama proprio sedute come se fosse una conversazione terapeutica tra lui e un dottore, ma quando il treno dottore va via non saluta mai.
Una volta durante una seduta un’addetta alle pulizie mai incontrata prima, e di cui non aveva fatto in tempo ad accorgersi, aveva lanciato secchio e scope per terra per lo spavento scappando a passo svelto verso l’uscita. Mortificato, Peppino aveva sollevato gli attrezzi e ricomposto il carrello dei detersivi per riportarlo alla donna che si era nascosta in biglietteria. Non era riuscito a parlare con lei per la vergogna e il dispiacere, ma gli era stato detto che il bigliettaio le avesse spiegato la situazione. Dopo quella volta aveva prestato più attenzione, ma la donna, si chiamava Antonia, continuava a guardarlo con sospetto ogni volta che lo incontrava.

La mattina del ventisette giugno, una domenica, Peppino arriva in stazione alle sette e mezza come al solito, beve il caffè al bar e scambia due chiacchiere con il ragazzo nuovo alla macchinetta del caffè, vispo nonostante la sonnolenza; si dirige verso la solita panchina con in mano una fetta di crostata all’albicocca acquistata nel bar e una pesca gialla che si è portato da casa per la merenda di metà mattina. Il ragazzo vispo gli ha avvolto il dolce con un tovagliolo e quello non solo si è appiccicato alla marmellata, ma non ha nemmeno impedito che la punta di frolla si sbriciolasse nella bustina di carta. Se ne accorge quando è già seduto sulla panchina, in procinto di mangiare. Alla vista della fetta di crostata accartocciata e piena di carta pensa alla spazzatura svolazzante del giorno prima e si dispera, ma lo fa in silenzio, con un pizzicore nuovo che gli solletica il naso e gli occhi che si velano velocemente, ma altrettanto velocemente ritornano sicuri e solo un po’ rossi. Mastica crostata e brandelli di tovagliolo con aria rassegnata, che scena pietosa, si dice quando per una strana coincidenza cosmica riesce a guardarsi dall’esterno. Sono un vecchio triste e patetico, stravolto come questa fetta di crostata.

Sono passati due anni e mezzo da quel giorno in cui è arrivato in stazione e suo figlio non c’era. Il rito che avevano stabilito si è interrotto senza dargli il tempo per prepararsi. È l’ultima domenica di giugno di un anno che ha smesso di contare, di un tempo che avrebbe voluto non arrivasse mai. Con quel che resta del tovagliolo stretto alla punta delle dita della mano sinistra, Peppino rimane seduto composto con ancora qualche briciola nei baffi. Indossa un berretto con il logo della vecchia pizzeria sotto casa che non c’è più da anni, una camicia estiva a scacchi celesti, gli occhiali da lettura e il mazzetto di penne nel taschino per le parole crociate che comprerà dopo dal giornalaio. Il portafogli e il fazzoletto di stoffa sono invece al sicuro nella tasca laterale dei pantaloncini da pescatore. 

Peppino è seduto composto al centro del suo mondo, le mani poggia sulla pancia di pietra e il tovagliolo della crostata ancora tra le dita. Aspetta, anche se sa che ciò che aspetta non tornerà. Ma non importa, se l’è ripetuto tante volte, l’attesa stessa mi consola. L’attesa, infatti, lo sospende in un tempo in cui è tutto possibile, e può persino succedere che Massimo ritorni e scenda dal regionale Bari – Molfetta andandogli incontro a braccia spalancate. Chi può dirlo.

Ci hai messo così tanto a tornare Massimo, mi ero preoccupato, dirà Peppino quel giorno, stringendo a sé il corpo del figlio che odora di treno e stanchezza. Questi treni sono sempre in ritardo, non è colpa mia, risponderà lui infastidito. 

Peppino ha gli occhi chiusi e sorride, è così felice che il transito veloce del Roma-Lecce delle 11:38 lo sorprende, non l’ha sentito arrivare. Il treno fischia forte e Peppino sa che lo sta salutando e grida insieme a lui, anche se non ha controllato chi c’è sulla banchina. Ma questa volta non è la solita seduta per il dolore del cuore, è una conversazione che devono sentire tutti, persino Massimo dovunque egli sia. 

Aspetterò tutto il tempo che serve Massimo mio, dice Peppino in quell’urlo, scenderai da uno di questi treni e io sarò qui per te. Sono invecchiato, ma non ti devi spaventare perché sono sempre il tuo papà. Mi riconosci dalla camicia stirata di fresco e il cappello della pizzeria che ti piaceva tanto. Adesso l’hanno chiusa e mi dispiace assai, ma ti farò assaggiare la pizzetta del panificio sulla strada di casa che è comunque buona.

Quando il treno completa il transito in stazione, l’aria si fa veloce e il tovagliolo che avvolgeva la crostata gli scappa via dalle dita per volare in alto sopra la tettoia. Peppino aspetta che ricada per un bel po’, ma non si è più fatto vedere, nemmeno nei giorni successivi. Ha trovato davvero una vita migliore.

Foto di Alessia Ragno.

Mosche d’autunno

Campi incolti nella periferia di Bari e in fondo palazzi cittadini

L’autunno se la sta prendendo comoda, un eufemismo per dire che va tutto in malora, eventualità che a Mino pare molto chiara da un bel po’ di tempo, al punto che si chiede sempre con più insistenza se abbia ancora senso programmare le giornate con la solita cura. Tuttavia si occupa della routine senza mai sgarrare e, in qualche modo, ciò contribuisce a mantenere l’apparenza tranquilla di quest’uomo pieno di pensieri.

Mino si sveglia con fatica ogni mattina alle sette sorretto dal senso di colpa che gli irrobustisce la schiena e dà il via alla giornata senza darsi il tempo di pensare; una volta posati i piedi nudi sul pavimento fresco delle prime ore della giornata, il cervello affianca al suo solito pensiero, ovvero la disgregazione del mondo come l’ha sempre conosciuto, il nuovo compito: seguire la tabella di marcia della mattina senza sgarrare. Cammina veloce verso la piccola cucina, accende la fiamma sotto la caffettiera già pronta dalla sera prima, apre la credenza e sceglie la tazza del giorno, una di ceramica liscia e lucida con una nuvola in rilievo su un lato e una colomba dall’altro. Mino si rende conto che si tratta di una tazza più pasquale che propiziatoria per l’autunno, ma le altre giacciono ancora in lavastoviglie perché il giovedì non è ancora giorno di lavaggio. Lascia il caffè sul fuoco e si dirige verso il bagno ancora al buio per la tapparella abbassata. Secondo i conti perfezionati nell’ultimo anno, la sequenza di apertura della tapparella, pipì, lavaggio di mani, viso e denti dura esattamente il tempo della preparazione del caffè, minuto più, minuto meno. E nemmeno stavolta viene smentito: sente un borbottio provenire dalla cucina proprio quando sta per asciugare il viso. Si affretta, ma nessuna goccia d’acqua finisce sul pavimento e si guarda allo specchio compiaciuto del record raggiunto.
Il caffè occupa la tazza pasquale in un attimo e gli scalda le mani; come sarebbe bello se avessero davvero bisogno di essere scaldate in un mattino di fine novembre che sembra un nuovo mese aggiunto a quelli estivi, invece è ancora lì col pigiama a maniche corte. Al primo sorso ripassa cosa indosserà per la giornata in ufficio: jeans scuro, una t-shirt bianca e quel cardigan sintetico che produce un leggero crepitio quando la sera se lo sfila di fretta; al massimo, pensa, se proprio arriverà un brivido di freddo si coprirà con la giacchetta impermeabile più pesante. Sogna spesso, ultimamente, l’eventualità che l’autunno si risvegli all’improvviso e giochi uno scherzo a tutti quanti e per quanto conosca l’alta improbabilità di un cambio climatico così repentino, ci pensa con un trasporto tale da distrarsi dalla colazione e quando ritorna in sé scopre che il caffè è già finito e non ha nemmeno aperto la confezione dei biscotti con le gocce di cioccolato che aveva messo al centro del tavolo. Esita ancora prima di ritornare alla routine per concedersi un ultimo pensiero felice, l’immagine delle foglie colorate di rosso e giallo a invadere alberi e strade che ha visto su internet prima di addormentarsi.

Nella strada di casa che sbircia dalla finestra, invece, è tutto verde con qualche sparuta macchia di giallo, alcuni cespugli sono in fiore e la confusione si è impadronita di flora e fauna. Gli vengono in mente le mosche che in questi giorni si sono convinte stia tornando la primavera e nel caldo posticcio percorrono euforiche la stessa porzione di aria con traiettorie rettilinee e cambi di direzione drastici, come se sbattessero su pareti invisibili. Quando a Mino capita di attraversare i loro percorsi, ha sempre cura di non interrompere quel vagare confinato, ma almeno una moschina al giorno interpreta la sua presenza come un segno divino che la riempie di speranza di una vita possibile fuori dall’area di assegnazione. Quella singola e insistente moschina, allora, lo segue per ringraziarlo spostando il moto regolare intorno a Mino, appiccicandosi alla sua faccia, ai capelli, sbattendo sugli occhiali da vista mentre lui cammina a passo spedito verso l’ufficio. All’ennesimo urto fortuito, Mino gradirebbe delle scuse, ma la mosca non capisce e ricomincia la danza, e se lui prova a disfarsene smanacciando per aria, quella si convince che l’essere sconosciuto e divino danzi insieme a lei. Capita sempre più spesso, nell’autunno disgraziato e perduto, che Mino si arrenda alla danza delle mosche, rassegnandosi ad affrontare insieme a loro il cammino sul viale alberato vicino casa.

Con i pensieri che affogano la testa, Mino si affretta a indossare gli abiti e la giacca mentre è ancora a piedi nudi; chiude il rito della vestizione prendendo dal cassetto del comodino i calzini di cotone e li infila nella stanza da letto buia: ha rinunciato ad aprire la finestra per far cambiare l’aria. Che cosa c’è da cambiare, pensa, entrano solo caldo e mosche. L’autunno si è perso per sempre.
Esce di casa affrontando il cielo lattiginoso, procede spedito verso il viale alberato e si prepara al tango delle mosche seguendo la fila di alberi, tronchi allineati e regolari con chiome ricadenti, sparute foglie gialle nel terreno e un tappeto di bacche color senape che copre il marciapiede. Si appiccicano a Mino come fanno le mosche e formano un unico impasto sotto la suola delle sneakers che cominciano a incollarsi cigolando a ogni passo. Quel suono ricorda a Mino che è arrivato il momento di aumentare il livello di attenzione e non distogliere lo sguardo dalla strada. Gli altri passanti, allora, sono testimoni oculari dell’uomo asciutto e concentrato che cammina a velocità costante senza perdere di vista i suoi piedi, e che con cura millimetrica evita i rifiuti che la tappezzano. É questa, allora, l’altra missione dell’eroico Mino, supereroe ordinario alla ricerca di piccoli compiti quotidiani che lo distraggano dal marcire del tempo.

Campi incolti nella periferia di Bari e in fondo palazzi cittadiniNel quartiere periferico e luminoso, in cui i palazzi spuntano di anno in anno pavoneggiandosi della propria classe energetica, l’arredo urbano è composto da erbacce incolte, le già citate bacche schiacciate e l’immondizia generata dai passanti e da chi nel quartiere ci abita. Ogni giorno, allora, Mino ingaggia una sfida con sé stesso per uscire indenne dal tragitto verso l’ufficio ed evitare i rifiuti che giacciono incolti da mesi e deturpano il paesaggio. Le menti più attente come quella di Mino fanno la differenza perché non è facile memorizzare la posizione di quei rifiuti perenni, ma lui è speciale. A venticinque passi dall’inizio del viale alberato, per esempio, sa che c’è una scatola di cartone di cui non si legge più il destinatario, macchiata di pisciatine di cani e rosicchiata dai topi negli angoli. Mino ricorda ancora il primo giorno in cui l’ha incontrata, era il 7 agosto, e da allora niente è stato capace di smuoverla da quella posizione, nemmeno i giorni magnanimi di maestrale. Poco prima di arrivare all’altezza della piazzetta con il prato asfittico, c’è un pacchetto di sigarette al centro di una congregazione di altri rifiuti: giace schiacciato da piedi e ruote d’auto, ma mantiene i suoi colori brillanti nonostante sia, a memoria di Mino, il rifiuto più antico. In bella vista, la foto di un uomo dalla gola martoriata dal fumo con un buco nero proprio al centro, ricorderà la violenza di quell’immagine per tutta la vita.
Quella di Mino è vera e propria archeologia cittadina, di alcuni rifiuti ha seguito la decomposizione giorno per giorno, con l’arrivo delle muffe, gli insetti e il passaggio dei topi, fino a vedere ogni residuo scomparire, fatto a pezzi da chissà quale altra bestia selvatica. Di altri reperti, invece, può ammirare la pregevole immutabilità nel tempo, come è successo a un paio di bottigliette di plastica che sono in strada da marzo, non è certo della data, di cui è variata solo lievemente la brillantezza del colore per colpa del sole innaturale che invade il cielo ogni giorno con la stessa insistenza. Chissà quante generazioni ci vorranno perché si possa apprezzare il minimo cambiamento in quelle bottiglie, Mino ci pensa sempre quando le supera a circa metà del suo percorso. O forse arriverà un animale qualsiasi, magari le volpi che ogni tanto fanno incursione nei campi incolti vicini, che se le porteranno via per occupare altri terreni ignari e inquinare con democratica rassegnazione.
rifiuti ai piedi di un ulivoIl sito archeologico che Mino guarda con più stupore, però, è quello dietro i cassonetti alla fine del viale, dove un’auto giocattolo a misura di bambino giace riversa sul ciglio nascosto della strada e niente parrebbe smuoverla, nemmeno l’arrivo di altri secchi di vernice, buste e mattoni. La macchina si è adagiata su un olivo ignaro e probabilmente sarà testimone della fine della civiltà, a meno che non costruiscano nuovi palazzi di superba classe energetica, generatori di orgoglio e altri rifiuti. In quel caso probabilmente giacerà nelle fondamenta di cemento a imperitura memoria del genere umano nell’universo.

Non manca molto all’arrivo in ufficio, un paio di isolati e il grumo di piastrelle una volta impilate con ordine sul ciglio della strada davanti all’ultimo cantiere, ora ridotte in frantumi dal passeggio. E proprio mentre si appresta ad affrontare i cocci instabili che gli rallentano la tabella di marcia mattutina da almeno venti giorni, Mino sente un guaito piccolino che richiama la sua attenzione. Non deve nemmeno alzare la testa per individuare l’origine del suono e ferma il passo interdetto, un piede sul marciapiede, l’altro sui cocci. Davanti a lui una donna alta con un cane buffo al guinzaglio che gli va incontro roteando la coda e scuotendo l’intera parte posteriore del suo corpo. Mino è sopraffatto da quella visione inattesa e distoglie l’attenzione dalla routine, dai cocci instabili, dai rifiuti intorno a lui e dimentica persino le mosche che sono ancora lì a fargli la festa; d’istinto si accovaccia a braccia larghe per accogliere il piccolino. La donna alta per un attimo pensa che stia per cantarle una serenata.

«Salve» dice lei quando gli è di fronte, «lo deve scusare, lui vuole per forza salutare tutte le persone che incontra durante le passeggiate». 

Le parole della donna invadono lo spazio fra i due, attraversano il corpo teso di Mino che ormai ha occhi solo per il cane, e proseguono indisturbate fino a disperdersi nell’aria spessa dietro di lui. Mino sembra non aver sentito e non dice nulla, concentrato com’è sul cane che si è tuffato nel suo abbraccio. Si tratta di un evento rarissimo, l’unico caso da mesi di un’amicizia nata all’improvviso, ma già salda ed eterna.

Davanti all’idillio la donna alta non sa bene che fare, cerca di trattenere come può il cane entusiasta, ma sospetta di essere solo un’intrusa davanti all’affetto appena nato. Mino, del resto, continua a ignorarla con trasporto e riemerge dall’abbraccio col cane piccolo solo quando il suo orologio da polso segna le ore otto spaccate con un suono intermittente. É in ritardo sulla tabella di marcia, ma ne è valsa la pena, pensa, e sul viso ha un sorriso così largo che la donna alta dimentica l’imbarazzo e non può fare a meno di pensare che il cane bianco, in fondo, sia un catalizzatore di felicità, una vera e propria vocazione la sua.

«Grazie per averlo accarezzato, le auguro una buona giornata» dice a Mino, ma lui si alza senza guardarla, avvicina la mano alle labbra e, dopo uno schiocco sonoro, lancia un bacio al cane piccolo che ricambia con i colpi di coda festosa.

Per sette lunghissimi minuti Mino è riuscito a non pensare alla routine e all’autunno che si è perso, e riprende a camminare più leggero tra i rifiuti antichi nell’ennesima giornata quieta e appiccicosa della sua vita. Negli stessi sette lunghissimi minuti la donna alta è rimasta impalata al limite della pozza di cocci, incapace di contenere lo stupore per l’assenza di dialogo con l’uomo sconosciuto che oramai è lontano da lei trenta passi. Per sette lunghissimi minuti e tanti altri a seguire in quella mattina tiepida e soleggiata, invece, il cane piccolo ha continuato a essere felice di esistere perché l’autunno, il primo della sua vita, se l’è proprio presa comoda in questo mondo che va in malora.

Photo credits: Alessia Ragno.

Un gesto pericoloso

tramonto arancio su una strada statale visto da un'auto

tramonto arancio su una strada statale visto da un'autoTornavo a casa nel tramonto anticipato di metà settembre quando ho fatto cenno a un uomo di calmarsi. Ho esagerato.
«Un gesto pericoloso», mi hanno detto a casa.
«Non sono riuscita a trattenermi» ho risposto.
Eravamo in auto, io nella mia modesta utilitaria, lui in una monovolume tirata a lucido. È scattato il verde del semaforo e non mi ha dato il tempo di raccogliere le idee, abbassare la mano sul cambio, inserire la marcia e accelerare. Aveva già suonato il clacson un paio di semafori prima, l’avevo intercettato nello specchietto retrovisore che mi parlava alterato. Gli ho chiesto scusa mentalmente, poi ho proseguito per la mia strada e dopo un paio di svolte mi sembrava di averlo perso e ho tirato un sospiro di sollievo.
Al semaforo dell’ultimo incrocio, quello vicino casa, mi sono distratta. Fissavo le mani lucide di crema solare, l’ultima della stagione, il sole tenue brillava sui solchi delle mani, la cicatrice sul dorso sinistro si rifletteva sul parabrezza confondendosi con gocce di pioggia antiche. Non ho avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, il suo clacson suonava di nuovo insistente e le altre auto hanno fatto il coro per ingiuriarmi e strattonare le orecchie, mi ripetevano che ero solo una buona a nulla. È stato allora che ho sollevato lenta la mano destra, l’ho esibita salda e sicura, come non era mai stata nella mia vita, e ho aperto le dita muovendo la mano avanti e dietro.
«Ti devi calmare, non sei il padrone della strada. Non puoi esibirti in questa piazzata ogni volta che il semaforo diventa verde. Non mi devi prevaricare» gli stavo dicendo con la mano, ma quello non ha capito niente e ha superato di forza la mia auto modesta lasciandomi in una nuvola grigio intenso.
«Avrebbe potuto farti del male, scendere dall’auto, picchiare forte sul cofano e spaventarti a morte. Non farlo mai più hai capito? Non reagire con quel tipo di persone».
Io ho annuito per farli tacere, ma sotto il tavolo stringevo i pugni per la rabbia.

Photo credits: Alessia Ragno.

Sequenza

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobus

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobusUno starnuto fragoroso, poi un secondo più forte. Il tizio che gli passa le casse si ferma e gli chiede nervoso: «Ce d’è, u covìd?». Il ragazzo fa cenno di no con la testa, gli toglie la cassa di mano e la lancia in malo modo alle sue spalle. Il rumore dell’atterraggio è coperto dal motorino che gli sfreccia accanto; chi guida alza un braccio in segno di saluto, lui risponde con un gesto del mento. È il fattorino della macelleria e quando si ferma sembra smonti da cavallo, con l’anca che compie un movimento ampio; si sfila il casco pieno di ammaccature e lo inforca come una borsetta col braccio nudo perché ha tagliato le maniche della camicia. Recupera dal bauletto la busta da consegnare e si lancia, atletico, verso un uomo coi baffi che lo sta già aspettando. Nel ripartire quasi investe l’anziano signore con il berretto del Bari e per il nervoso gli dedica un bestemmione, ma quello non lo ascolta e allinea l’una dopo l’altra le gambe secche e bianche da bermuda precoci, fino a che non emerge su Corso Vittorio Emanuele. Cammina sul bordo esatto dell’ombra dei palazzi, è in ritardo e si tranquillizza solo dieci minuti dopo, alla vista della pensilina col tabellone degli orari e l’autobus che sta arrivando. Scuote una mano per richiamare l’attenzione dell’autista mentre con le gambe accelera vistosamente. «Grazie giovane!» dice col fiato corto quando riesce a salire e si siede con un gran sospiro, spalmando le cosce nude sulla plastica rovente. Nell’autobus c’è un tizio con le gambe da ragno e la pancia prominente che ha assistito alla scena. È di malumore perché suda, si sventola col biglietto grande come il suo pollice, ma la situazione non migliora. Girerà in autobus fino all’ora di pranzo, come fa sempre, ma oggi c’è il più fastidioso degli inconvenienti: i vetri sono coperti dagli adesivi pubblicitari, una pioggia fitta di pallini bianchi gli blocca la visuale. Li detesta, ma quando l’autobus riprende la sua corsa, inizia a contarli per tenersi occupato e si dimentica della strada.

Foto di Alessia Ragno.

La stellina

la sabbia della psiaggia di Pane e Pomodoro Bari e una stellina rosa al centro

la sabbia della psiaggia di Pane e Pomodoro Bari e una stellina rosa al centroDall’altra parte di Pane e pomodoro, la spiaggia cittadina di Bari, c’è un molo invaso di tiktoker che provano balletti, ragazzi che pompano i muscoli sugli attrezzi dipinti di fresco e pescatori ben coperti e seduti sugli scogli. La spiaggia di sabbia sembra lontanissima. Tornando indietro ho camminato guardando per terra e fotografando i sassi che calpestavo.
«Ma che stai cercando?»
«Pietre colorate.»
Quando la sabbia è tornata, sono riuscita a riconoscere le scarpe che erano passate prima di noi dall’impronta che avevano lasciato in mezzo alle tracce dei gabbiani.
«Hai finito di giocare a CSI?», ma rideva.
«Quasi», ho risposto, e mentre parlavo ho trovato la stellina, il tesoro che cercavo.

Foto di Alessia Ragno.