Tornavo a casa nel tramonto anticipato di metà settembre quando ho fatto cenno a un uomo di calmarsi. Ho esagerato.
«Un gesto pericoloso», mi hanno detto a casa.
«Non sono riuscita a trattenermi» ho risposto.
Eravamo in auto, io nella mia modesta utilitaria, lui in una monovolume tirata a lucido. È scattato il verde del semaforo e non mi ha dato il tempo di raccogliere le idee, abbassare la mano sul cambio, inserire la marcia e accelerare. Aveva già suonato il clacson un paio di semafori prima, l’avevo intercettato nello specchietto retrovisore che mi parlava alterato. Gli ho chiesto scusa mentalmente, poi ho proseguito per la mia strada e dopo un paio di svolte mi sembrava di averlo perso e ho tirato un sospiro di sollievo.
Al semaforo dell’ultimo incrocio, quello vicino casa, mi sono distratta. Fissavo le mani lucide di crema solare, l’ultima della stagione, il sole tenue brillava sui solchi delle mani, la cicatrice sul dorso sinistro si rifletteva sul parabrezza confondendosi con gocce di pioggia antiche. Non ho avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, il suo clacson suonava di nuovo insistente e le altre auto hanno fatto il coro per ingiuriarmi e strattonare le orecchie, mi ripetevano che ero solo una buona a nulla. È stato allora che ho sollevato lenta la mano destra, l’ho esibita salda e sicura, come non era mai stata nella mia vita, e ho aperto le dita muovendo la mano avanti e dietro.
«Ti devi calmare, non sei il padrone della strada. Non puoi esibirti in questa piazzata ogni volta che il semaforo diventa verde. Non mi devi prevaricare» gli stavo dicendo con la mano, ma quello non ha capito niente e ha superato di forza la mia auto modesta lasciandomi in una nuvola grigio intenso.
«Avrebbe potuto farti del male, scendere dall’auto, picchiare forte sul cofano e spaventarti a morte. Non farlo mai più hai capito? Non reagire con quel tipo di persone».
Io ho annuito per farli tacere, ma sotto il tavolo stringevo i pugni per la rabbia.
Photo credits: Alessia Ragno.