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L’uomo che consegna fiori

Un ramo di fico carico di foglie e frutti in diverse fasi di maturazione.

Ogni giorno percorre le stesse strade e la cosa, se ci pensa troppo, lo rende triste, fatta eccezione per questi giorni di fine inverno in cui ha almeno una consolazione: sui rami resi scuri dall’inquinamento sono tornate le piccole gemme, quelle di un verde tenue inconfondibile. La natura riparte, dicono quelli studiati, ma è troppo presto, alla primavera manca ancora troppo, le gemme bruceranno al freddo e foglie e fiori si perderanno per sempre, pensa lui. Sono prodigi imprevedibili e crescono sotto la sua attenzione con sfacciataggine: nascono minuscoli palloncini verdi, ma nel giro di una settimana si sono già allungati come fiammelle con le punte rivolte al sole. In un mese esatto, se non ci sono le catastrofi o gelate, al loro posto ci saranno foglie brillanti. Pronte per essere bruciate dalla siccità di agosto, aggiunge sconsolato. 

È il giorno di San Valentino, pieno febbraio secondo il calendario, credo abbiate davvero esagerato, dice alle gemme che non gli prestano attenzione, vanitose che non siete altro, persino con la luce del pomeriggio riesco a distinguervi. Deve consegnare gli ultimi fiori della giornata, il sole sta tramontando, e vaga in una piazza che non conosce stringendo nella mano sinistra un mazzo di rose avvolte da un fiocco voluminoso, nella destra il telefonino con le mappe del quartiere. Ogni dieci passi circa rilegge l’indirizzo segnato sul biglietto, ma non riesce a trovare il numero civico segnato a penna. Eppure consegna a domicilio piante e fiori nello stesso quartiere periferico di Bari da quando aveva quattordici anni, è diventato adulto girando col suo treruòte fiorito traboccante di piante e mazzi colorati confezionati in tulle, rafia e cellophane, spruzzati di lucidante dall’odore sintetico che si diffonde per tutto il tragitto. Ma ora il treruòte è fermo all’inizio della strada e a lui sembra di aver camminato per un giorno intero nella zona nuova coi palazzi appena liberati dalle impalcature. Nel silenzio della piazza appena inaugurata ma già trasandata sono solo in tre: lui col mazzo di rose che ondeggia al vento, una donna con un cane al guinzaglio e un ragazzo seduto sull’unica panchina non avvolta dalla sterpaglia.

Procede cauto riparando con il proprio corpo il mazzo di fiori per evitare che si scompigli, ma ha anche fretta di tornare in negozio per occuparsi della chiusura. Sta perdendo la pazienza, non c’è verso di trovare il numero civico a cui è destinato, ha perso l’orientamento. Si fa coraggio per chiedere informazioni alla donna con il cane biondo che procede lento sulla diagonale della piazza. Sa dirmi dove si trova il trentaquattro? Non saprei, risponde lei, non abito qui. Ma allora che ci fai sul mio cammino, perché diamine mai nessuna coincidenza conduce alla soluzione dei miei problemi?

Gli rimarrebbe da interpellare il ragazzo sulla panchina, ma è piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani. Da lontano gli sembra un gesto disperato e quell’immagine entra talmente in risonanza con la sua tristezza che non riesce a tollerare la visione e gli volta le spalle. Non è il caso di disturbare, si giustifica col vento, e per tranquillizzarsi si immagina mentre cammina a passo sicuro verso il ragazzo per regalargli la rosa più bella sfilata dal mazzo. Mi dispiace moltissimo, nessuno dovrebbe essere così triste, dice ad alta voce quando ritorna alla realtà, ma il ragazzo non gli risponde, è troppo lontano.

Riprende il vagare disordinato a caccia del numero civico trentaquattro, scruta una seconda volta ogni portone affacciato sulla piazza, i numeri sono sempre sbagliati, cinquantasei, cinquantaquattro, magari è cinquantaquattro e hanno scritto male? Ma sul citofono il cognome non c’è, sarebbe troppo strano se avessero sbagliato entrambi. Non sa se è meglio attraversare la strada, non è sicuro che lì ci siano i numeri dispari e con ferocia maledice questo pomeriggio freddo e ventoso che non vuole finire mai, maledice il quartiere perché non lo riconosce più e lui non sopporta i cambiamenti, anzi non li capisce, lui non capisce niente, non ha mai capito niente di niente. Piagnucola. Sono uscito senza giacca dal treruòte che adesso è parcheggiato a chilometri di distanza, mi fa freddo, non ho più sensibilità alla mano e le rose non reggeranno a lungo. Come le gemme. Nemmeno loro reggeranno a lungo con questo clima che cambia in continuazione. È l’ultima consegna e non so dove andare, ho fatto un casino. 

I pensieri lo distraggono e una folata di vento piega il mazzo all’improvviso, la mano perde la presa, le rose cadono per terra, un boato risuona nella testa dell’uomo. Sembrano averlo sentito anche la donna, il cane e il ragazzo. La donna si spaventa e tira via il cane, il ragazzo, invece, solleva la testa incuriosito. Fissa le rose a lungo, poi guarda l’uomo e gli fa un cenno con la mano destra. Si alza in piedi e solleva le braccia al cielo, poi disegna un arco da destra a sinistra e da sinistra a destra, elegante come un giunco. Infine si alza in piedi e salta a pie’ pari sulla panchina, sovrasta tutte le erbacce da quell’altezza. Con delicatezza piega il busto in avanti e si aggrappa con le mani alle caviglie, sembra che stia preparando i muscoli del suo corpo leggero che per fortuna non vola col vento sempre più invadente. Davanti a quello spettacolo l’uomo delle consegne non può che sentirsi sollevato: non eri disperato, ti stavi solo concentrando per danzare. Il ragazzo questa volta lo sente e per risposta annuisce con la testa e una serie di piroette, saltelli, prima posizione, quinta, plié, relevé. 

Se fossi anche io leggero ballerei con lui, pensa l’uomo mentre il ballerino fa un’ultima piroetta in aria e atterra senza esitazioni con le braccia spalancate. Il vento fischia, Bravo!, Ancora!, e l’uomo si sente in dovere di partecipare all’entusiasmo degli elementi, allora infila il cellulare nella tasca dei pantaloni e comincia ad applaudire così forte che le mani finalmente si riscaldano e riprendono colore.

Il ragazzo flette il capo in avanti in un inchino leggero, l’uomo delle consegne ricambia, sfila tre rose dal mazzo che è ancora per terra, ai suoi piedi, e le lancia sul palco. Bravo! Complimenti!, Evviva!; il ballerino ringrazia e manda baci al pubblico di vento, panchine, cestini dell’immondizia, donne col cane e uomini che consegnano fiori.

Le rose rimaste sono ancora per terra, dopo la performance nessuno bada più a loro, mentre il biglietto bianco spillato sul cellophane, destinato ad Annalisa, quarto pianto del numero civico trentaquattro, con tanto amore, tuo P., un cuore rosso, resiste finché una nuova folata di vento non lo strappa definitivamente. Vola sospinto dal vento impertinente e raggiunge il cane biondo che, con un guizzo assai raro di questi tempi, blocca il biglietto con i denti come fosse una preda a lungo attesa e  lo mastica fino a che il cuore rosso disegnato sulla carta smette di battere.

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