L’autunno se la sta prendendo comoda, un eufemismo per dire che va tutto in malora, eventualità che a Mino pare molto chiara da un bel po’ di tempo, al punto che si chiede sempre con più insistenza se abbia ancora senso programmare le giornate con la solita cura. Tuttavia si occupa della routine senza mai sgarrare e, in qualche modo, ciò contribuisce a mantenere l’apparenza tranquilla di quest’uomo pieno di pensieri.
Mino si sveglia con fatica ogni mattina alle sette sorretto dal senso di colpa che gli irrobustisce la schiena e dà il via alla giornata senza darsi il tempo di pensare; una volta posati i piedi nudi sul pavimento fresco delle prime ore della giornata, il cervello affianca al suo solito pensiero, ovvero la disgregazione del mondo come l’ha sempre conosciuto, il nuovo compito: seguire la tabella di marcia della mattina senza sgarrare. Cammina veloce verso la piccola cucina, accende la fiamma sotto la caffettiera già pronta dalla sera prima, apre la credenza e sceglie la tazza del giorno, una di ceramica liscia e lucida con una nuvola in rilievo su un lato e una colomba dall’altro. Mino si rende conto che si tratta di una tazza più pasquale che propiziatoria per l’autunno, ma le altre giacciono ancora in lavastoviglie perché il giovedì non è ancora giorno di lavaggio. Lascia il caffè sul fuoco e si dirige verso il bagno ancora al buio per la tapparella abbassata. Secondo i conti perfezionati nell’ultimo anno, la sequenza di apertura della tapparella, pipì, lavaggio di mani, viso e denti dura esattamente il tempo della preparazione del caffè, minuto più, minuto meno. E nemmeno stavolta viene smentito: sente un borbottio provenire dalla cucina proprio quando sta per asciugare il viso. Si affretta, ma nessuna goccia d’acqua finisce sul pavimento e si guarda allo specchio compiaciuto del record raggiunto.
Il caffè occupa la tazza pasquale in un attimo e gli scalda le mani; come sarebbe bello se avessero davvero bisogno di essere scaldate in un mattino di fine novembre che sembra un nuovo mese aggiunto a quelli estivi, invece è ancora lì col pigiama a maniche corte. Al primo sorso ripassa cosa indosserà per la giornata in ufficio: jeans scuro, una t-shirt bianca e quel cardigan sintetico che produce un leggero crepitio quando la sera se lo sfila di fretta; al massimo, pensa, se proprio arriverà un brivido di freddo si coprirà con la giacchetta impermeabile più pesante. Sogna spesso, ultimamente, l’eventualità che l’autunno si risvegli all’improvviso e giochi uno scherzo a tutti quanti e per quanto conosca l’alta improbabilità di un cambio climatico così repentino, ci pensa con un trasporto tale da distrarsi dalla colazione e quando ritorna in sé scopre che il caffè è già finito e non ha nemmeno aperto la confezione dei biscotti con le gocce di cioccolato che aveva messo al centro del tavolo. Esita ancora prima di ritornare alla routine per concedersi un ultimo pensiero felice, l’immagine delle foglie colorate di rosso e giallo a invadere alberi e strade che ha visto su internet prima di addormentarsi.
Nella strada di casa che sbircia dalla finestra, invece, è tutto verde con qualche sparuta macchia di giallo, alcuni cespugli sono in fiore e la confusione si è impadronita di flora e fauna. Gli vengono in mente le mosche che in questi giorni si sono convinte stia tornando la primavera e nel caldo posticcio percorrono euforiche la stessa porzione di aria con traiettorie rettilinee e cambi di direzione drastici, come se sbattessero su pareti invisibili. Quando a Mino capita di attraversare i loro percorsi, ha sempre cura di non interrompere quel vagare confinato, ma almeno una moschina al giorno interpreta la sua presenza come un segno divino che la riempie di speranza di una vita possibile fuori dall’area di assegnazione. Quella singola e insistente moschina, allora, lo segue per ringraziarlo spostando il moto regolare intorno a Mino, appiccicandosi alla sua faccia, ai capelli, sbattendo sugli occhiali da vista mentre lui cammina a passo spedito verso l’ufficio. All’ennesimo urto fortuito, Mino gradirebbe delle scuse, ma la mosca non capisce e ricomincia la danza, e se lui prova a disfarsene smanacciando per aria, quella si convince che l’essere sconosciuto e divino danzi insieme a lei. Capita sempre più spesso, nell’autunno disgraziato e perduto, che Mino si arrenda alla danza delle mosche, rassegnandosi ad affrontare insieme a loro il cammino sul viale alberato vicino casa.
Con i pensieri che affogano la testa, Mino si affretta a indossare gli abiti e la giacca mentre è ancora a piedi nudi; chiude il rito della vestizione prendendo dal cassetto del comodino i calzini di cotone e li infila nella stanza da letto buia: ha rinunciato ad aprire la finestra per far cambiare l’aria. Che cosa c’è da cambiare, pensa, entrano solo caldo e mosche. L’autunno si è perso per sempre.
Esce di casa affrontando il cielo lattiginoso, procede spedito verso il viale alberato e si prepara al tango delle mosche seguendo la fila di alberi, tronchi allineati e regolari con chiome ricadenti, sparute foglie gialle nel terreno e un tappeto di bacche color senape che copre il marciapiede. Si appiccicano a Mino come fanno le mosche e formano un unico impasto sotto la suola delle sneakers che cominciano a incollarsi cigolando a ogni passo. Quel suono ricorda a Mino che è arrivato il momento di aumentare il livello di attenzione e non distogliere lo sguardo dalla strada. Gli altri passanti, allora, sono testimoni oculari dell’uomo asciutto e concentrato che cammina a velocità costante senza perdere di vista i suoi piedi, e che con cura millimetrica evita i rifiuti che la tappezzano. É questa, allora, l’altra missione dell’eroico Mino, supereroe ordinario alla ricerca di piccoli compiti quotidiani che lo distraggano dal marcire del tempo.
Nel quartiere periferico e luminoso, in cui i palazzi spuntano di anno in anno pavoneggiandosi della propria classe energetica, l’arredo urbano è composto da erbacce incolte, le già citate bacche schiacciate e l’immondizia generata dai passanti e da chi nel quartiere ci abita. Ogni giorno, allora, Mino ingaggia una sfida con sé stesso per uscire indenne dal tragitto verso l’ufficio ed evitare i rifiuti che giacciono incolti da mesi e deturpano il paesaggio. Le menti più attente come quella di Mino fanno la differenza perché non è facile memorizzare la posizione di quei rifiuti perenni, ma lui è speciale. A venticinque passi dall’inizio del viale alberato, per esempio, sa che c’è una scatola di cartone di cui non si legge più il destinatario, macchiata di pisciatine di cani e rosicchiata dai topi negli angoli. Mino ricorda ancora il primo giorno in cui l’ha incontrata, era il 7 agosto, e da allora niente è stato capace di smuoverla da quella posizione, nemmeno i giorni magnanimi di maestrale. Poco prima di arrivare all’altezza della piazzetta con il prato asfittico, c’è un pacchetto di sigarette al centro di una congregazione di altri rifiuti: giace schiacciato da piedi e ruote d’auto, ma mantiene i suoi colori brillanti nonostante sia, a memoria di Mino, il rifiuto più antico. In bella vista, la foto di un uomo dalla gola martoriata dal fumo con un buco nero proprio al centro, ricorderà la violenza di quell’immagine per tutta la vita.
Quella di Mino è vera e propria archeologia cittadina, di alcuni rifiuti ha seguito la decomposizione giorno per giorno, con l’arrivo delle muffe, gli insetti e il passaggio dei topi, fino a vedere ogni residuo scomparire, fatto a pezzi da chissà quale altra bestia selvatica. Di altri reperti, invece, può ammirare la pregevole immutabilità nel tempo, come è successo a un paio di bottigliette di plastica che sono in strada da marzo, non è certo della data, di cui è variata solo lievemente la brillantezza del colore per colpa del sole innaturale che invade il cielo ogni giorno con la stessa insistenza. Chissà quante generazioni ci vorranno perché si possa apprezzare il minimo cambiamento in quelle bottiglie, Mino ci pensa sempre quando le supera a circa metà del suo percorso. O forse arriverà un animale qualsiasi, magari le volpi che ogni tanto fanno incursione nei campi incolti vicini, che se le porteranno via per occupare altri terreni ignari e inquinare con democratica rassegnazione.
Il sito archeologico che Mino guarda con più stupore, però, è quello dietro i cassonetti alla fine del viale, dove un’auto giocattolo a misura di bambino giace riversa sul ciglio nascosto della strada e niente parrebbe smuoverla, nemmeno l’arrivo di altri secchi di vernice, buste e mattoni. La macchina si è adagiata su un olivo ignaro e probabilmente sarà testimone della fine della civiltà, a meno che non costruiscano nuovi palazzi di superba classe energetica, generatori di orgoglio e altri rifiuti. In quel caso probabilmente giacerà nelle fondamenta di cemento a imperitura memoria del genere umano nell’universo.
Non manca molto all’arrivo in ufficio, un paio di isolati e il grumo di piastrelle una volta impilate con ordine sul ciglio della strada davanti all’ultimo cantiere, ora ridotte in frantumi dal passeggio. E proprio mentre si appresta ad affrontare i cocci instabili che gli rallentano la tabella di marcia mattutina da almeno venti giorni, Mino sente un guaito piccolino che richiama la sua attenzione. Non deve nemmeno alzare la testa per individuare l’origine del suono e ferma il passo interdetto, un piede sul marciapiede, l’altro sui cocci. Davanti a lui una donna alta con un cane buffo al guinzaglio che gli va incontro roteando la coda e scuotendo l’intera parte posteriore del suo corpo. Mino è sopraffatto da quella visione inattesa e distoglie l’attenzione dalla routine, dai cocci instabili, dai rifiuti intorno a lui e dimentica persino le mosche che sono ancora lì a fargli la festa; d’istinto si accovaccia a braccia larghe per accogliere il piccolino. La donna alta per un attimo pensa che stia per cantarle una serenata.
«Salve» dice lei quando gli è di fronte, «lo deve scusare, lui vuole per forza salutare tutte le persone che incontra durante le passeggiate».
Le parole della donna invadono lo spazio fra i due, attraversano il corpo teso di Mino che ormai ha occhi solo per il cane, e proseguono indisturbate fino a disperdersi nell’aria spessa dietro di lui. Mino sembra non aver sentito e non dice nulla, concentrato com’è sul cane che si è tuffato nel suo abbraccio. Si tratta di un evento rarissimo, l’unico caso da mesi di un’amicizia nata all’improvviso, ma già salda ed eterna.
Davanti all’idillio la donna alta non sa bene che fare, cerca di trattenere come può il cane entusiasta, ma sospetta di essere solo un’intrusa davanti all’affetto appena nato. Mino, del resto, continua a ignorarla con trasporto e riemerge dall’abbraccio col cane piccolo solo quando il suo orologio da polso segna le ore otto spaccate con un suono intermittente. É in ritardo sulla tabella di marcia, ma ne è valsa la pena, pensa, e sul viso ha un sorriso così largo che la donna alta dimentica l’imbarazzo e non può fare a meno di pensare che il cane bianco, in fondo, sia un catalizzatore di felicità, una vera e propria vocazione la sua.
«Grazie per averlo accarezzato, le auguro una buona giornata» dice a Mino, ma lui si alza senza guardarla, avvicina la mano alle labbra e, dopo uno schiocco sonoro, lancia un bacio al cane piccolo che ricambia con i colpi di coda festosa.
Per sette lunghissimi minuti Mino è riuscito a non pensare alla routine e all’autunno che si è perso, e riprende a camminare più leggero tra i rifiuti antichi nell’ennesima giornata quieta e appiccicosa della sua vita. Negli stessi sette lunghissimi minuti la donna alta è rimasta impalata al limite della pozza di cocci, incapace di contenere lo stupore per l’assenza di dialogo con l’uomo sconosciuto che oramai è lontano da lei trenta passi. Per sette lunghissimi minuti e tanti altri a seguire in quella mattina tiepida e soleggiata, invece, il cane piccolo ha continuato a essere felice di esistere perché l’autunno, il primo della sua vita, se l’è proprio presa comoda in questo mondo che va in malora.
Photo credits: Alessia Ragno.