Biografia di X, l’ultimo romanzo di Catherine Lacey edito da SUR nella traduzione di Teresa Ciuffoletti, è un meta romanzo, un esperimento narrativo. X è stata la più grande artista statunitense del Novecento, la sua arte ha spaziato in ogni ambito, dalla scrittura, alla musica, passando per le installazioni e le performance audiovisive. Di lei viene pubblicata una prima biografia non autorizzata e sua moglie, CM Lucca, corre ai ripari per proteggerne l’eredità artistica con un lungo lavoro di ricerca che la porta a scoprire tutto ciò che di lei non ha mai saputo.
X, ovviamente, non è mai esistita ed è frutto dell’immaginazione di Lacey che costruisce un’intricata rete di documenti, fotografie e materiale d’archivio per sostenere la credibilità di questa biografia immaginaria. Il percorso per arrivare a conoscere il suo passato è doloroso per CM e complesso per chi legge, navigando a vista in una linea temporale che si chiama Novecento, ma che in realtà è una sua versione distopica. Nel 1945, infatti, gli Stati Uniti si sono divisi in Territori del Nord e Territori del Sud. Questi ultimi, luogo natale di X, sono una teocrazia fascista che annulla le libertà individuali, soprattutto delle donne. Ed è proprio la libertà individuale il perno della produzione artistica di X: camaleontica, iconoclasta, irriverente, una donna sopravvissuta al suo passato e disposta a tutto per dimenticarlo, persino a ridurre il suo nome a una sola lettera.
In parallelo, si diceva, c’è la vicenda di CM, la vedova, che dalla scomparsa di X si ritrova a districare tutto quello che è stato nascosto in una relazione tossica e sbilanciata nelle dinamiche di potere.
L’analisi di Biografia di X di Catherine Lacey è su L’indiependente.
Per approfondire
L’intervista a Catherine Lacey per Another Magazine e il racconto della genesi del romanzo.
L’analisi del romanzo sul Guardian.
“A love story in reverse”, l’intervista a Vogue USA.
“A provocative novel in disguise”, la recensione del New Yorker.
Catherine Lacey nel podcast Lit Up.
Catherine Lacey al Circolo Lettori con Claudia Durastanti e Martina Testa.




Si diceva che fossero capaci di magie e dispetti, ma soprattutto sapevano volare sopra le nuvole da Alicudi, nelle Eolie, fino a Palermo, in un battito di ciglia. Sono le majare, donne/streghe protagoniste dell’esordio nella narrativa di Marta Lamalfa per Neri Pozza, L’isola dove volano le femmine. Siamo ai primi del Novecento e la carestia ad Alicudi costringe gli abitanti a usare la segale cornuta per il proprio pane. La chiamano così perché ci sono delle piccole protuberanze nere sulle spighe, hanno un cattivo odore, di marcio e perduto. Questa segale li avvelenerà per anni: le protuberanze, dette tizzonare, contengono funghi velenosi e allucinogeni. Ma la fame è fame, soprattutto per una delle famiglie più povere della città. Sono i membri di questa famiglia gli altri protagonisti del romanzo, anime che Lamalfa segue con cura e a cui attribuisce una voglia di riscatto timida ma crescente.



Nel quartiere periferico e luminoso, in cui i palazzi spuntano di anno in anno pavoneggiandosi della propria classe energetica, l’arredo urbano è composto da erbacce incolte, le già citate bacche schiacciate e l’immondizia generata dai passanti e da chi nel quartiere ci abita. Ogni giorno, allora, Mino ingaggia una sfida con sé stesso per uscire indenne dal tragitto verso l’ufficio ed evitare i rifiuti che giacciono incolti da mesi e deturpano il paesaggio. Le menti più attente come quella di Mino fanno la differenza perché non è facile memorizzare la posizione di quei rifiuti perenni, ma lui è speciale. A venticinque passi dall’inizio del viale alberato, per esempio, sa che c’è una scatola di cartone di cui non si legge più il destinatario, macchiata di pisciatine di cani e rosicchiata dai topi negli angoli. Mino ricorda ancora il primo giorno in cui l’ha incontrata, era il 7 agosto, e da allora niente è stato capace di smuoverla da quella posizione, nemmeno i giorni magnanimi di maestrale. Poco prima di arrivare all’altezza della piazzetta con il prato asfittico, c’è un pacchetto di sigarette al centro di una congregazione di altri rifiuti: giace schiacciato da piedi e ruote d’auto, ma mantiene i suoi colori brillanti nonostante sia, a memoria di Mino, il rifiuto più antico. In bella vista, la foto di un uomo dalla gola martoriata dal fumo con un buco nero proprio al centro, ricorderà la violenza di quell’immagine per tutta la vita.
Il sito archeologico che Mino guarda con più stupore, però, è quello dietro i cassonetti alla fine del viale, dove un’auto giocattolo a misura di bambino giace riversa sul ciglio nascosto della strada e niente parrebbe smuoverla, nemmeno l’arrivo di altri secchi di vernice, buste e mattoni. La macchina si è adagiata su un olivo ignaro e probabilmente sarà testimone della fine della civiltà, a meno che non costruiscano nuovi palazzi di superba classe energetica, generatori di orgoglio e altri rifiuti. In quel caso probabilmente giacerà nelle fondamenta di cemento a imperitura memoria del genere umano nell’universo.
Tornavo a casa nel tramonto anticipato di metà settembre quando ho fatto cenno a un uomo di calmarsi. Ho esagerato.
A seguirla con dedizione, qualche passo più indietro, compare il suo cane bianco i cui movimenti appaiono frenetici e scoordinati; non ha aura, ma i suoi contorni sono ugualmente sfumati per il manto mosso dal venticello della sera che lo fa sembrare una nuvola di felicità immotivata. Nel momento della detonazione del senso di colpa a seguito della parola magica pronunciata per una pura casualità, il cane era pochi passi dietro la donna, impegnato ad annusare le già citate erbacce nel mezzo delle quali scorgeva più d’una lumaca stremata dal viaggio, ma giunta sana e salva nella terra promessa. E siccome a lui non interessano i sensi di colpa e le auree argentee involontarie, né la fatica nuova della donna che rallenta a ogni passo, ha spalancato la mandibola per assaggiare la felicità passeggera delle lumache vittoriose. Ha masticato il guscio ancora pieno, ma il sapore in esso contenuto non si è rivelato granché e l’ha risputato storcendo il naso rosato che nella sera sembra del colore della liquirizia.

