Le storie delle donne: Edna O’Brien

Copertina della trilogia di Edna O'Brien ragazze di campagna: un campo di fiori rossi dipinto su tela

Copertina della trilogia di Edna O'Brien ragazze di campagna: un campo di fiori rossi dipinto su telaLa credenza comune che le autrici scrivano solo per le donne resiste ancora, più nello specifico resiste l’idea che la narrativa scritta da donne sia destinata a non durare perché più esile e priva dello spessore dei romanzi dei mostri sacri universalmente riconosciuti. Le autrici, dicono, creano fenomeni passeggeri, validi solo per l’appagamento che una buona trama sa comunque dare. Appagamento, ovviamente, destinato alle sole lettrici perché intanto gli uomini non leggono donne, preferiscono la letteratura seria, dicono, ma anche perché secondo i rilevamenti ISTAT, in Italia nel 2022 la percentuale delle lettrici era del 44%, quella dei lettori del 34.3%. Se però il pubblico è prevalentemente donna, la scrittura professionale è un affare da uomini per uomini e inevitabilmente insegna anche alle donne a scrivere come uomini, con i conseguenti cliché. Solo gli uomini, anzi alcuni uomini, possono parlare, scrivere e discorrere di letteratura. E le storie delle donne dove sono? Quando ci va bene sono scritte dagli uomini, reinterpretate e criticate da altri uomini, oggetto di scherno e facile ironia quando i suddetti uomini arrivano a catalogare la narrativa femminile, forse indispettiti da scelte oltraggiose, come quando il New York Times in uno dei suoi giochi letterari ha scelto come miglior libro del XXI secolo L’amica Geniale di Elena Ferrante. Questo affronto ha scatenato la scena letteraria italiana abituata a pendere dalle parole degli scrittori, critici, ed editor uomini. Credo, allora, che sia responsabilità diretta di lettrici e lettori quella di smuovere un panorama letterario asfittico e riportare le storie delle donne al centro, dove per storie delle donne intendo narrativa scritta da autrici, dedicata alle vite delle donne e alla loro complessità, argomenti che hanno evidente legittimità letteraria. Penso, a questo proposito, alla legittimità di Piccole Donne, tuttora messa in discussione anche da alcune scrittrici, e da Louisa May Alcott tiro una linea immaginaria nello spazio e nel tempo per congiungerla alla trilogia di Ragazze di campagna di Edna O’Brien.

In entrambe i casi si tratta di storie di donne in crescita alla scoperta del proprio posto nel mondo. Sono serie di romanzi differenti, ma unite dal destino comune: sottovalutate, trascurate, ridicolizzate e, se osano troppo, censurate. I tre romanzi della serie Ragazze di campagna è stato presentato per decenni come lo scandaloso romanzo di formazione di due giovani donne nell’Irlanda della seconda metà Novecento, in realtà si tratta del pregiato ritratto letterario di una terra complicata e di cosa volesse dire essere giovani donne cattoliche nelle zone rurali dell’isola. Una storia che solo una scrittrice proveniente dalla contea di Clare poteva ideare.

La trilogia è composta da romanzi – Ragazze di campagna, La ragazza sola e Ragazze nella felicità coniugale – pubblicati tra il 1960 e il 1964, e costituiscono l’esordio nella narrativa di Edna O’Brien. Da allora O’ Brien, scomparsa nell’estate del 2024, ha scritto altri diciassette romanzi, un memoir, innumerevoli racconti, saggi, poesie, libri per ragazze e ragazzi e opere teatrali. Non aveva nessuna formazione letteraria, tutto talento, all’inizio, affinato dalla costanza e dalla quantità delle pagine scritte negli anni. Lei stessa racconta l’influenza che ha avuto, dopo la prima stesura, una lezione su Hemingway e Fitzgerald tenutasi a Londra, un segnale che la induce a riscrivere il manoscritto con un’attenzione ulteriore sulla lingua usata, adesso più essenziale. Eterno il suo amore per Proust e Virgina Woolf, a quest’ultima dedica persino una pièce teatrale, tante anche le amicizie illustri nel mondo letterario – uno su tutti Philip Roth. Ma Edna O’Brien è stata soprattutto, per merito della sua scrittura, una delle più grandi autrici irlandesi di tutti i tempi.

La famiglia l’aveva costretta a studiare farmacia, dopo gli anni di studio a Dublino e un periodo come commessa, O’Brien si sposa con lo scrittore Ernest Gébler e con lui e i suoi due figli si trasferisce a Londra. Ragazze di campagna è il tributo alla sua vita nella terra natia, autobiografico solo in alcuni dettagli. Fu l’amico Iain Hamilton a suggerirle di provare a scrivere un romanzo dopo i primi lavori per alcuni giornali locali. Lei scrive Ragazze di campagna in poche settimane, poco dopo l’arrivo a Londra con la famiglia, chiede al marito di leggerlo e lui pronuncia il responso: «You can do it and I’ll never forgive you». Uomini.
Il matrimonio con Gébler, uomo duro, ombroso e abusante, finì poco dopo e O’Brien riuscì a conquistare la custodia dei due figli, nonché a consolidare il suo mestiere di scrittrice. Poco dopo l’uscita del primo romanzo, O’Brien fu notata dai critici e censurata dall’Irish Censorship Board, l’invito esplicito era quello di bruciare i suoi scritti, perché nessuna nell’Irlanda del secolo scorso aveva osato scrivere della crescita di una donna, della scoperta dell’amore romantico e di quello sensuale, dell’erotismo quotidiano, di psicanalisi e dell’inevitabile allontanamento dalla religione.
O’Brien segue Caithleen Brady detta Kate e Bridget Brennan detta Baba, le due protagoniste, sin dalla prima adolescenza, passando per l’espulsione dalla scuola cattolica, fino all’arrivo a Dublino e le relazioni con uomini violenti, la normalità di quell’epoca. E nonostante le delusioni, i matrimoni fallimentari, le scelte sbagliate e la dipendenza affettiva, Kate e Baba rimangono spiritose, ingenue, insolenti e piene di vita e di domande, crudeli l’una con l’altra come solo le ragazze sanno fare, ma sempre unite da un dettaglio comune: essere donne in un contesto ostile alla loro vitalità. Quella di O’Brien è pura avanguardia letteraria, con Kate che parla di psicoanalisi e Baba di relazioni sessuali, entrambe alla ricerca dell’indipendenza economica, ma soprattutto del dissenso, a modo loro, verso la morale imperante. Quella di Kate e Baba è un’avventura che non può prescindere da uomini molesti, violenti verbalmente e fisicamente, uomini di chiesa decisi a imporre la loro morale, mascalzoni senza possibilità di redenzione. E loro, le ragazze, si ritrovano a diventare vittime sacrificali di un sistema patriarcale ancora lontano dall’essere scardinato. Se non è contemporaneità questa.

Le scogliere di Moher nella COunty Clare
Le scogliere di Moher nella County Clare
In una serie di documentari dedicati alla scrittrice irlandese e al suo rapporto con la terra madre, O’Brien cammina sulle scogliere della sua contea nel vento che sferza il mare, in altre inquadrature tocca la sabbia delle spiagge e si confonde nella vegetazione limitrofa, poi la regia stacca e la riprende a fianco dei genitori. Siamo negli anni ‘70, O’Brien è all’inizio della sua carriera, ha una chioma voluminosa di capelli rossi, un cardigan di lana spessa e una sciarpa leggera al collo. In alcuni estratti racconta la vita a Londra, la nascita dei romanzi e le feste con amici illustri: Marlon Brando, John Updike, Sean Connery, Philip Roth, e gli incontri occasionali con Elizabeth Taylor, Richard Burton e la principessa Margaret. In altre inquadrature la sua voce fuori campo si sofferma sull’Irlanda e a un certo punto dice: «There’s something secretly catastrophic about a country from which so many people do, escape», ed è una verità difficile da digerire tuttora.

Quella di Edna O’Brien è stata una vita straordinaria, ma ancora più straordinarie sono state le vite delle protagoniste che ha ideato e di cui ha scritto fino alla fine affinché la letteratura, e le storie, fossero anche delle donne.

Foto di Alessia Ragno e di Shannon DaGrava da Pixabay.

Biografia di X di Catherine Lacey

copertina del romanzo biografia di X di Catherine lacey, due occhi di donna di profilo

copertina del romanzo biografia di X di Catherine lacey, due occhi di donna di profiloBiografia di X, l’ultimo romanzo di Catherine Lacey edito da SUR nella traduzione di Teresa Ciuffoletti, è un meta romanzo, un esperimento narrativo. X è stata la più grande artista statunitense del Novecento, la sua arte ha spaziato in ogni ambito, dalla scrittura, alla musica, passando per le installazioni e le performance audiovisive. Di lei viene pubblicata una prima biografia non autorizzata e sua moglie, CM Lucca, corre ai ripari per proteggerne l’eredità artistica con un lungo lavoro di ricerca che la porta a scoprire tutto ciò che di lei non ha mai saputo.

X, ovviamente, non è mai esistita ed è frutto dell’immaginazione di Lacey che costruisce un’intricata rete di documenti, fotografie e materiale d’archivio per sostenere la credibilità di questa biografia immaginaria. Il percorso per arrivare a conoscere il suo passato è doloroso per CM e complesso per chi legge, navigando a vista in una linea temporale che si chiama Novecento, ma che in realtà è una sua versione distopica. Nel 1945, infatti, gli Stati Uniti si sono divisi in Territori del Nord e Territori del Sud. Questi ultimi, luogo natale di X, sono una teocrazia fascista che annulla le libertà individuali, soprattutto delle donne. Ed è proprio la libertà individuale il perno della produzione artistica di X: camaleontica, iconoclasta, irriverente, una donna sopravvissuta al suo passato e disposta a tutto per dimenticarlo, persino a ridurre il suo nome a una sola lettera.

In parallelo, si diceva, c’è la vicenda di CM, la vedova, che dalla scomparsa di X si ritrova a districare tutto quello che è stato nascosto in una relazione tossica e sbilanciata nelle dinamiche di potere.

L’analisi di Biografia di X di Catherine Lacey è su L’indiependente.

Per approfondire

L’intervista a Catherine Lacey per Another Magazine e il racconto della genesi del romanzo.

L’analisi del romanzo sul Guardian.

“A love story in reverse”, l’intervista a Vogue USA.

“A provocative novel in disguise”, la recensione del New Yorker.

Catherine Lacey nel podcast Lit Up.

Catherine Lacey al Circolo Lettori con Claudia Durastanti e Martina Testa. 

Demon Copperhead, il premio Pulitzer 2023

Copertina del romanzo Demon copperhead di Barbara Kingsolver

Demon Copperhead è il romanzo vincitore del Premio Pulitzer 2023, scritto da Barbara Kingsolver e pubblicato nel 2023 nella sua versione italiana da Neri Pozza, tradotto da Laura Prandino. Il paragone con David Copperfield di Charles Dickens è immediato e non è un mistero, ma se le basi di partenza sono le stesse, tra assonanza del titolo e contenuti (la povertà sistematica di un certo tipo di società, la vita difficile di un ragazzo seguito dalla nascita fino al suo riscatto), il risultato è completamente diverso e originale.
Demon Copperhead è ambientato nella regione degli Appalachi, una catena montuosa statunitense che si estende dal confine col Canada a nord fino all’Alabama, nel profondo sud. Siamo in Virginia, contea di Lee per la precisione, e il protagonista è Damon Fields, Demon Copperhead per la sua comunità, nato da una madre molto giovane e tossicodipendente. Gli anni sono quelli dell’epidemia degli oppioidi che, soprattutto nelle aree rurali come questa, uccidono e rendono orfane intere generazioni.

Panorama della contea di Lee in Virginia, con prati verdi e montagne.
Panorama della Lee County in Virginia


Su L’indiependente trovi l’analisi completa del romanzo e i legami con altre pietre miliari della narrativa statunitense contemporanea.

 

 Photo credits: Flickr, Licenze Creative Commons, by mkw87

Per approfondire l’analisi del romanzo

L’intervista a Barbara Kingsolver, l’autrice, nel podcast del New York Times Ezra Klein Show in cui si parla delle zone rurali statunitensi dimenticate da media e letteratura.

Un’altra intervista all’autrice per la rete britannica Channel 4 con un focus sulla dipendenza dagli oppioidi e del più recente exploit del Fentanyl.

Amici e ombre, l’esordio nella narrativa di Kavita Bedford

copertina del libro amici e ombre di kavita bedford con una foto in bianco e nero di una spiaggia di scogli, un uomo e un cane

Kavita Bedford, scrittrice e giornalista australiana, esordisce nella narrativa con Amici e ombre, Edizioni EO, tradotto da Leonardo Gandi.

È la vicenda di una protagonista senza nome, trentenne precaria nella gentrificata Redfern, sobborgo di Sidney, e i millennial in distress che le gravitano incontro. Ai problemi dell’esistenza, tra precarietà e l’essere stati lanciati nella vita adulta senza gli strumenti per affrontarla, si aggiunge un lutto personale che rielabora a piccoli passi senza risparmiarsi. Tra storie di immigrazione, gentrificazione di interi quartieri e ragionamenti su classismo e privilegio, la protagonista e voce narrante ci prova a diventare responsabile, centrata, refrattaria alle crisi esistenziali, ma semplicemente il sistema in cui vive non glielo consente.

E in questo Sidney è come Parigi, Milano, Napoli e la straniante periferia barese in cui abito.

copertina del libro amici e ombre di kavita bedford con una foto in bianco e nero di una spiaggia di scogli, un uomo e un cane

In copertina, uno spaccato di vita sugli scogli del fotografo Andrew Quilty a ritrarre individui che potrebbero essere felici, ma anche sull’orlo del baratro, in un eterno e complesso altalenare.
Come le nostre vite adesso.

Leggi l’analisi del romanzo su L’indiependente.
Photo credits: Alessia Ragno.

La gabbia dei conigli, Tess Gunty

copertina del romanzo la gabbia dei conigli di tess Gunty: la sagoma di una donna con un fiore in mano, il volto nascosto

L’esordio della scrittrice Tess Gunty si chiama La gabbia dei conigli, in Italia edito da Guanda nella traduzione di Alba Bariffi, ed è il romanzo vincitore del National Book Award for Fiction del 2022. Si tratta della più giovane scrittrice a vincere dai tempi di Philip Roth, che all’epoca della vittoria per Goodbye, Columbus, nel 1960, aveva 27 anni.

Nelle intenzioni, La gabbia dei conigli è un romanzo polifonico, ricco di personaggi stravaganti e ossessivi, tutti abitanti della Conigliera, un complesso residenziale claustrofobico ricavato da vecchi alloggi per operai della immaginaria fabbrica automobilistica Zorn dell’altrettanto immaginaria città di Vacca Vale, Indiana. Vacca Vale è il simbolo di tutte quelle città del Midwest statunitense, nella Rust Belt per la precisione, che hanno conosciuto il declino economico dopo la chiusura improvvisa delle fabbriche manifatturiere che tanto avevano promesso.

In questo contesto decadente, svetta la storia di Blandine Watkins, un’eterea diciottenne troppo piccola per innescare una rivoluzione, ma determinata a fare la sua parte. Fra dialoghi psichedelici, ossessioni malsane e solidi discorsi anticapitalismo, Blandine diventa una nuova eroina della narrativa statunitense: lucida, visionaria e, all’occorrenza, portatrice sana di rabbia. L’analisi del romanzo, tra riferimenti letterari, storici e cinematografici – tra cui Michael Moore, Maggie Nelson e Joyce Carol Oates e un suo romanzo di vent’anni fa a cui sono molto legata – è su L’Indiependentee

Per approfondire alcuni temi dell’analisi

Nell’esergo del romanzo, Gunty cita un dialogo estratto dal primo documentario di Michael Moore, Roger & Me, del 1989. Si tratta del racconto del declino economico della città di Flint, in Michigan, luogo natale di Moore, a seguito della chiusura della fabbrica General Motors e la perdita del lavoro da parte di trentamila operai.
Il Roger del titolo è Roger B. Smith, l’allora amministratore delegato della General Motors.
Su Youtube è disponibile il trailer del documentario.

Nell’analisi su L’Indiependente cito anche Bestie, romanzo di Joyce Carol Oates del 2002.
Gillian Brauer è una studentessa completamente affascinata dal suo professore di poesia al college, Andre Harrow, e dalla moglie scultrice, Dorcas. L’intreccio fra i tre si fa progressivamente torbido e pericoloso fino alla vendetta finale di una Gillian trasformatasi, finalmente, da preda in cacciatrice.

Approfondimenti sull’autrice

Su YouTube è disponibile il video della vittoria del National Book Award for Fiction del 2022.

Da ascoltare anche questa intervista a Tess Gunty per Barnes & Noble in cui cita le sue ispirazioni letterarie.

Bye Bye vitamine di Rachel Khong

copertina del romanzo Bye Bye vitamine: fondo rosa e in primo piano un paio di scarpe appese a un filo dell'alta tensione, scarpe che contengono fiori rosa.

In Bye Bye Vitamine di Rachel Khong, edito da NN editore nella traduzione si Silvia Rota Sperti, c’è Ruth che torna a casa nella Vigilia di Natale per rimanerci un anno – o almeno così immagina – perché hanno bisogno di lei: il padre mostra i primi segni della malattia neurodegenerativa che gli è stata diagnosticata, l’Alzheimer, e la sua storia d’amore con Joel è finita, non ha più senso rimanere a San Francisco. Bye Bye Vitamine, allora, è il diario dello smarrimento dopo la fine di una storia, dell’accettazione della malattia di un padre e della rassegna inevitabile di tutti i ricordi, gli errori e gli episodi del passato.
Le vitamine del titolo fanno parte di quei piccoli gesti che si mettono in atto per respingere il dolore. Alla diagnosi di Alzheimer la madre vieta l’alluminio, si ossessiona con centrifugati e cibo salutare e butta giù compresse di B-12 e succo di sedano. Si reagisce così al dolore e alla paura, prendendo le decisioni più inaspettate e folli, costruendo nuove routine che si crede salvino dal gorgo della tristezza, ma che poi finiscono abbandonate poco dopo aver cominciato. E se non ci fosse un piglio comico in questo romanzo, sarebbe anche una scelta struggente: una patetica, eppure profondissima, necessità di riparare la vita con piccoli cerotti colorati anche se hai un male cane perché ti sei tagliato con la carta, ma almeno i disegni dei cerotti distraggono un poco e fanno sorridere.

Con una scrittura veloce e istintiva, che segue di fatto i pensieri e le associazioni mentali del personaggio protagonista, Rachel Khong costruisce un romanzo che è un po’ memoir e un po’ autoanalisi.

Copertina anglosassone del romanzo Bye Bye Vitamine, scritta nera su fondo di silhouette di limoni colorati di fucsia, giallo e arancione.Come si elabora il declino, figurato e metaforico, di un genitore? Come si convive con la sua malattia, il passato imperfetto e l’urgenza di stargli lontana perché la vicinanza porta solo dolore?
C’è una rassegnazione diffusa nella prima metà di Bye Bye Vitamine, che Ruth combatte con una vecchia amica, i ricordi, il libretto rosso in cui il padre annotava i suoi pensieri ed episodi di quando era una bambina, le rinunce davanti ai rimedi curiosi della madre e i tentativi di riportare il fratello Linus a casa. Il primo tema portante della narrazione è proprio in questa rassegnazione: niente cambia davvero, soprattutto una diagnosi feroce, ma ci si prova lo stesso anche se la vita è “solo” un lungo tentativo, più o meno convinto, di tenere tutto insieme. Ruth lo fa bevendo con l’amica di sempre, ma anche intrecciando nuovi rapporti e regalando, qua e là, notizie totalmente scollegate dal contesto, eppure significative. Si legge del «tizio» che ha inventato i tergicristalli, del signor Alzheimer, persino dei pistacchi che sono la frutta secca meno calorica. E a che serve tutto questo? A nulla sembrerebbe, ma sarebbe un errore di valutazione. È anche con queste nozioni che si va avanti.

Nella seconda metà del romanzo la situazione cambia. La madre di Ruth si stufa persino dei rimedi temporanei, rinuncia al divieto dell’alluminio, alle vitamine, smette di cucinare, lavora e quando torna a casa si chiude nella sua stanza. Ruth vorrebbe dirle, nella sua maniera goffa e piena di aneddoti, che la malattia del padre non è una loro colpa, ma non è così facile. In qualche modo, però, si mette nuovamente in moto l’elaborazione emotiva degli avvenimenti degli ultimi mesi e da confusione e paura emergono i cocci di una vita precaria da rimettere insieme, con un nuovo senso. Rachel Khong, allora, fresca e diretta, porta avanti una analisi del tutto personale dei rapporti umani tipica degli autori di questa nuova letteratura ( Sally Rooney, Lisa Halliday, ecc.) delle donne millennial: profonda, drammatica, ma non priva di soluzioni. E questo topos non adombra in nessun modo il rapporto viscerale con il proprio io, su cui Ruth è talmente concentrata da dimenticare persino di mangiare. E per quanto la felicità di Ruth sia inevitabilmente calibrata sugli alti e bassi di questo padre imperfetto che si sta perdendo, e per quanto sia irresistibile la voglia di fare bilanci della propria vita e di quelle degli altri, a giugno scrive che va quasi meglio, pur nel continuo riaffiorare di ricordi, rimpianti, errori, insomma, della vita così com’è. E questa è la conquista del significato più profondo di un’esistenza, dettaglio che emerge evidente anche nell’analisi della traduttrice, Silvia Rota Sperti, in coda al romanzo:

Bye Bye Vitamine è una lezione su come sia importante vivere il presente spegnendo il resto, anche solo per pochi attimi.