Una vita migliore

La stazione di Molfetta in una giornata di sole
La stazione di Molfetta in una giornata di sole
Stazione di Molfetta, giugno 2010.

Sulla banchina della stazione si inseguono due carte appallottolate, ma nel movimento non si riesce a distinguere quale delle due sia il fazzoletto e quale l’involucro di un gelato. Peppino si concentra per seguire il loro movimento e a guardare bene gli viene il dubbio che la palla di carta più grande possa appartenere a una di quelle merende di cioccolato e biscotto che abbondano nel distributore all’ingresso. Nel pieno della sua analisi, però, le carte finiscono sui binari in un sussulto per poi riprendere a ruotare su loro stesse e l’una intorno all’altra, sfiorandosi più volte e allontanandosi di poco, fino a quando il passaggio di un treno veloce le solleva altissime sopra la tettoia e per almeno dieci secondi, Peppino li conta mentalmente, scompaiono dalla sua vista. Sono andate verso una vita migliore, pensa lui facendosi trasportare dalla coreografia dei due involucri abbandonati, vorrei seguirle fin su nel cielo, aggiunge mentre le immagina nella loro trasformazione da spazzatura a creature dell’aria. Nessuno dei presenti in stazione è attento alle due carte scomparse, sono amiche esclusive di Peppino a quanto pare, ma quando ricadono lontane, dopo che il vortice di vento ha lasciato la stazione, lui sconsolato si dice che si è sbagliato, sono solo spazzatura e nemmeno questa volta hanno cambiato il loro destino. Si intristisce un poco quando prendono a rotolare nella direzione opposta e si perdono per sempre. Peppino immagina di scendere sui binari e riunirle, ma è un pensiero fulmineo che si dissolve nella realtà che lo richiama a sé con gli annunci in diffusione e il passeggio di pochi pendolari accaldati.
Al binario uno sta arrivando il regionale da Bari, sa che è ancora presto per ritornare a casa, ma guarda comunque l’ora sul telefonino per calcolare con esattezza quanto tempo manca all’ora di pranzo. È un rito fondamentale perché gli permette di scandire i tempi della mattina e, cosa più importante di tutte, con la precisione che l’ha sempre contraddistinto riesce a evitare l’ora di punta del panificio sulla strada di casa. Si muoverà a mezzogiorno e quindici così da trovarsi in cucina per le tredici, quando inizia il telegiornale. Ogni giorno intorno al tavolo, con il suo quartino di pane fresco, l’olio buono, le verdure di stagione e una scatoletta di tonno quando è pigro o una frittatina quando ha voglia di cucinare, ci sono Peppino, il giornalista che legge le notizie in tv e il gatto Max sulla sedia libera. Che fortuna che c’è Max, si dice sempre, anche se non risponde mai a nessuna sua domanda, nemmeno un miagolio per tenerlo contento, non si fa accarezzare e vive nell’armadio d’inverno e sulla mensola della finestra d’estate, sempre a debita distanza, a parte quando riconosce l’apertura della scatoletta di tonno.

Da quando è in pensione, un anno esatto a settembre, Peppino passa ogni mattina in stazione. Adesso riconosce i vari dipendenti, i bigliettai, la giovane coppia che gestisce l’edicola senz’aria condizionata, e persino i volti di alcuni pendolari gli risultano oramai familiari. Con qualcuno accenna un saluto cortese, ricambiato con cura, con altre scambia una chiacchiera sul meteo e i ritardi dei treni. La domenica è il giorno più duro: il personale della stazione è ridotto, i pendolari non ci sono, i treni sono di meno, ma Peppino arriva comunque di buon’ora e alle sette e trenta è già sulla panchina della piattaforma principale. Non importa se piove o c’è il sole perché la banchina è riparata e se fa molto caldo è sufficiente aspettare il passaggio del treno veloce che non fa fermata e stride sui binari e negli ingranaggi perché ha fretta di andare. L’aria che smuove gli si infila nella camicia e in quel momento di furia del vento sente di poter essere sincero e immagina di librarsi in aria come le carte abbandonate sui binari. Ultimamente quando è certo di essere solo, soprattutto dopo l’ora di punta o più spesso di domenica, Peppino grida insieme al treno, coperto dai rumori di ferraglia che lo rendono invisibile. Grida spingendosi con le mani sulla panchina per farsi forza, la voce esce con tale impeto che sente le corde vocali strapparsi, ma non gli importa perché così butta fuori i dolori del suo cuore invecchiato di colpo. Quando anche l’ultima carrozza abbandona la stazione, lasciando dietro di sé solo un residuo di vento, Peppino si ricompone, anche se gli occhi rimangono lucidi per un bel po’ dopo ogni seduta. Le chiama proprio sedute come se fosse una conversazione terapeutica tra lui e un dottore, ma quando il treno dottore va via non saluta mai.
Una volta durante una seduta un’addetta alle pulizie mai incontrata prima, e di cui non aveva fatto in tempo ad accorgersi, aveva lanciato secchio e scope per terra per lo spavento scappando a passo svelto verso l’uscita. Mortificato, Peppino aveva sollevato gli attrezzi e ricomposto il carrello dei detersivi per riportarlo alla donna che si era nascosta in biglietteria. Non era riuscito a parlare con lei per la vergogna e il dispiacere, ma gli era stato detto che il bigliettaio le avesse spiegato la situazione. Dopo quella volta aveva prestato più attenzione, ma la donna, si chiamava Antonia, continuava a guardarlo con sospetto ogni volta che lo incontrava.

La mattina del ventisette giugno, una domenica, Peppino arriva in stazione alle sette e mezza come al solito, beve il caffè al bar e scambia due chiacchiere con il ragazzo nuovo alla macchinetta del caffè, vispo nonostante la sonnolenza; si dirige verso la solita panchina con in mano una fetta di crostata all’albicocca acquistata nel bar e una pesca gialla che si è portato da casa per la merenda di metà mattina. Il ragazzo vispo gli ha avvolto il dolce con un tovagliolo e quello non solo si è appiccicato alla marmellata, ma non ha nemmeno impedito che la punta di frolla si sbriciolasse nella bustina di carta. Se ne accorge quando è già seduto sulla panchina, in procinto di mangiare. Alla vista della fetta di crostata accartocciata e piena di carta pensa alla spazzatura svolazzante del giorno prima e si dispera, ma lo fa in silenzio, con un pizzicore nuovo che gli solletica il naso e gli occhi che si velano velocemente, ma altrettanto velocemente ritornano sicuri e solo un po’ rossi. Mastica crostata e brandelli di tovagliolo con aria rassegnata, che scena pietosa, si dice quando per una strana coincidenza cosmica riesce a guardarsi dall’esterno. Sono un vecchio triste e patetico, stravolto come questa fetta di crostata.

Sono passati due anni e mezzo da quel giorno in cui è arrivato in stazione e suo figlio non c’era. Il rito che avevano stabilito si è interrotto senza dargli il tempo per prepararsi. È l’ultima domenica di giugno di un anno che ha smesso di contare, di un tempo che avrebbe voluto non arrivasse mai. Con quel che resta del tovagliolo stretto alla punta delle dita della mano sinistra, Peppino rimane seduto composto con ancora qualche briciola nei baffi. Indossa un berretto con il logo della vecchia pizzeria sotto casa che non c’è più da anni, una camicia estiva a scacchi celesti, gli occhiali da lettura e il mazzetto di penne nel taschino per le parole crociate che comprerà dopo dal giornalaio. Il portafogli e il fazzoletto di stoffa sono invece al sicuro nella tasca laterale dei pantaloncini da pescatore. 

Peppino è seduto composto al centro del suo mondo, le mani poggia sulla pancia di pietra e il tovagliolo della crostata ancora tra le dita. Aspetta, anche se sa che ciò che aspetta non tornerà. Ma non importa, se l’è ripetuto tante volte, l’attesa stessa mi consola. L’attesa, infatti, lo sospende in un tempo in cui è tutto possibile, e può persino succedere che Massimo ritorni e scenda dal regionale Bari – Molfetta andandogli incontro a braccia spalancate. Chi può dirlo.

Ci hai messo così tanto a tornare Massimo, mi ero preoccupato, dirà Peppino quel giorno, stringendo a sé il corpo del figlio che odora di treno e stanchezza. Questi treni sono sempre in ritardo, non è colpa mia, risponderà lui infastidito. 

Peppino ha gli occhi chiusi e sorride, è così felice che il transito veloce del Roma-Lecce delle 11:38 lo sorprende, non l’ha sentito arrivare. Il treno fischia forte e Peppino sa che lo sta salutando e grida insieme a lui, anche se non ha controllato chi c’è sulla banchina. Ma questa volta non è la solita seduta per il dolore del cuore, è una conversazione che devono sentire tutti, persino Massimo dovunque egli sia. 

Aspetterò tutto il tempo che serve Massimo mio, dice Peppino in quell’urlo, scenderai da uno di questi treni e io sarò qui per te. Sono invecchiato, ma non ti devi spaventare perché sono sempre il tuo papà. Mi riconosci dalla camicia stirata di fresco e il cappello della pizzeria che ti piaceva tanto. Adesso l’hanno chiusa e mi dispiace assai, ma ti farò assaggiare la pizzetta del panificio sulla strada di casa che è comunque buona.

Quando il treno completa il transito in stazione, l’aria si fa veloce e il tovagliolo che avvolgeva la crostata gli scappa via dalle dita per volare in alto sopra la tettoia. Peppino aspetta che ricada per un bel po’, ma non si è più fatto vedere, nemmeno nei giorni successivi. Ha trovato davvero una vita migliore.

Foto di Alessia Ragno.

L’isola dove volano le femmine, l’esordio di Marta Lamalfa

Un libro davanti a una libreria, nelal copertina due donne sembrano spiccare il volo

Un libro davanti a una libreria, nelal copertina due donne sembrano spiccare il voloSi diceva che fossero capaci di magie e dispetti, ma soprattutto sapevano volare sopra le nuvole da Alicudi, nelle Eolie, fino a Palermo, in un battito di ciglia. Sono le majare, donne/streghe protagoniste dell’esordio nella narrativa di Marta Lamalfa per Neri Pozza, L’isola dove volano le femmine. Siamo ai primi del Novecento e la carestia ad Alicudi costringe gli abitanti a usare la segale cornuta per il proprio pane. La chiamano così perché ci sono delle piccole protuberanze nere sulle spighe, hanno un cattivo odore, di marcio e perduto. Questa segale li avvelenerà per anni: le protuberanze, dette tizzonare, contengono funghi velenosi e allucinogeni. Ma la fame è fame, soprattutto per una delle famiglie più povere della città. Sono i membri di questa famiglia gli altri protagonisti del romanzo, anime che Lamalfa segue con cura e a cui attribuisce una voglia di riscatto timida ma crescente.

Ritorno alla rubrica che mi diverte di più, le Tre Domande per scrittrici e scrittori esordienti, e con Marta Lamalfa dialoghiamo sulla costruzione del romanzo, delle intenzioni di scrittura, della lingua antica che costruisce per questo libro e del ruolo del Meridione nella narrativa italiana. 

Per approfondire

Il documentario L’isola analogica di Francesco G. Raganato dedicato alle leggende di Alicudi.

L’intervista: Milena Agus, Notte di vento che passa

Copertina romanzo Notte di vento che passa di Milena Agus: illustrazione di una ragazza legge un libro seduta sul ramo di un abero

Copertina romanzo Notte di vento che passa di Milena Agus: illustrazione di una ragazza legge un libro seduta sul ramo di un aberoCosima è una giovane donna che prova a capire il mondo, vive in una Sardegna luminosa e dolente tra Cagliari e il suo entroterra, con una madre avvelenata dalla vita, un padre sognatore e una famiglia a pezzi. A ricoprire un ruolo fondamentale nella sua formazione anche una professoressa di lettere e l’amico di sempre, Abya Yala, ma soprattutto i libri e le storie che contengono. La scrittrice cagliaritana Milena Agus torna al romanzo con Notte di vento che passa edito da Mondadori, opera che fa della letterarizzazione della vita il suo punto focale.
Letterarizzare significa leggere il reale con la lente del poetico, della letteratura, perché tutto si può ricondurre a una storia che è stata raccontata e talvolta scomparire per un poco in quella dimensione aiuta a rendere più tollerabile il reale. Con una grazia e una disponibilità impareggiabili, Milena Agus, autrice di lungo corso, finalista allo Strega con il suo Mal di Pietre, storia di una donna atipica e incompresa a partire dal Secondo Dopoguerra, mi ha concesso questa intervista. Il tema portante è l’identità e insieme parliamo di famiglia, di scrittura, di Sardegna e di come ci si realizza in questo sud avaro e bellissimo, se grazie a lui o suo malgrado.

Per approfondire

La nuova edizione di Mal di Pietre, Nottetempo.

Foto di Alessia Ragno.

Olivia Manning, La grande fortuna

Copertine inglese e italiana dei libri di Olivia Manning

La vita di Olivia Manning è stata un romanzo, non solo per le peripezie di gioventù in giro per Europa e Medio Oriente inseguita dalla Seconda guerra mondiale, ma soprattutto perché dedicata con convinzione alla letteratura in cerca del riconoscimento che meritava. Scrittrice prolifica di romanzi, giornalista, corrispondente di guerra, poetessa, autrice per la BBC una volta tornata in patria dopo la guerra, Manning ha lottato tutta la vita per rendere la sua scrittura immortale. Il riconoscimento, purtroppo, arriva dopo la morte della scrittrice, quando nel 1987 il suo capolavoro, ovvero la saga Fortunes of war viene trasposta in una serie televisiva di grande successo. La vicenda è quella dei giovanissimi coniugi Prince, Guy e Harriet, che arrivano nel settembre del 1939, alle porte della guerra, a Bucarest in Romania.

Fortunatamente Olivia Manning torna nelle librerie italiane proprio con la prima parte di Fortune of war, ovvero l’atto primo della trilogia dei Balcani, La grande fortuna, nella traduzione di Velia Februari per Fazi editore. Il viaggio di Harriet e Guy è appena iniziato.

 

L’analisi del romanzo e un ritratto letterario di Manning è su L’indiependente.

Per approfondire

Feminize your canon è la rubrica di The Paris review dedicata alle scrittrici dimenticate. La puntata dedicata a Olivia Manning.

Un articolo di archivio del NYTimes dedicato alla scrittrice britannica.

La voce di Olivia Manning in un programma radio della BBC del 1969.

La miniserie BBC tratta da Fortunes of war con Kenneth Branagh ed Emma Thompson.

Emily Austin, “Moriremo tutti, ma non oggi”

copertina del romanzo: illustrazione di una donna bionda con lo sguardo triste

Gilda (in inglese letto Ghilda) è una ventisettenne atea e omosessuale che soffre di ansia, attacchi di panico e depressione. Per un caso del destino si ritrova a essere assunta da una parrocchia cattolica nella sua città per ricoprire il ruolo di segretaria amministrativa: comincia così il romanzo Moriremo tutti, ma non oggi della scrittrice canadese Emily Austin, il suo esordio nella scrittura, pubblicato in Italia da Blackie edizioni. Un titolo che è un manifesto e che descrive perfettamente l’ossessione di Gilda per la morte, sua e delle persone che le sono intorno, e lo sviluppo dei suoi pensieri intrusivi inficiati dal disturbo d’ansia che la affligge. Ma in tutto questo Gilda si rivela subito come uno dei personaggi più comici della narrativa millennial degli ultimi anni e la sua vicenda si rivela non solo profondamente umana, ma anche tenera e malinconica.

Su L’indiependente analizzo il romanzo e lo contestualizzo nella scrittura delle donne millenial che tanto ha attirato l’editoria in questi ultimi anni, per fortuna, anche se con qualche stereotipo di troppo, purtroppo. Ma non c’è pericolo, Gilda è immune da questi stereotipi.

Leggi l’articolo su L’Indiependente.
copertina del romanzo: illustrazione di una donna bionda con lo sguardo triste

Per approfondire

Una recensione del romanzo su Kirkus Review.

La video intervista di Emily Austin per Sapph-Lit.

Foto di Alessia Ragno.

Demon Copperhead, il premio Pulitzer 2023

Copertina del romanzo Demon copperhead di Barbara Kingsolver

Demon Copperhead è il romanzo vincitore del Premio Pulitzer 2023, scritto da Barbara Kingsolver e pubblicato nel 2023 nella sua versione italiana da Neri Pozza, tradotto da Laura Prandino. Il paragone con David Copperfield di Charles Dickens è immediato e non è un mistero, ma se le basi di partenza sono le stesse, tra assonanza del titolo e contenuti (la povertà sistematica di un certo tipo di società, la vita difficile di un ragazzo seguito dalla nascita fino al suo riscatto), il risultato è completamente diverso e originale.
Demon Copperhead è ambientato nella regione degli Appalachi, una catena montuosa statunitense che si estende dal confine col Canada a nord fino all’Alabama, nel profondo sud. Siamo in Virginia, contea di Lee per la precisione, e il protagonista è Damon Fields, Demon Copperhead per la sua comunità, nato da una madre molto giovane e tossicodipendente. Gli anni sono quelli dell’epidemia degli oppioidi che, soprattutto nelle aree rurali come questa, uccidono e rendono orfane intere generazioni.

Panorama della contea di Lee in Virginia, con prati verdi e montagne.
Panorama della Lee County in Virginia


Su L’indiependente trovi l’analisi completa del romanzo e i legami con altre pietre miliari della narrativa statunitense contemporanea.

 

 Photo credits: Flickr, Licenze Creative Commons, by mkw87

Per approfondire l’analisi del romanzo

L’intervista a Barbara Kingsolver, l’autrice, nel podcast del New York Times Ezra Klein Show in cui si parla delle zone rurali statunitensi dimenticate da media e letteratura.

Un’altra intervista all’autrice per la rete britannica Channel 4 con un focus sulla dipendenza dagli oppioidi e del più recente exploit del Fentanyl.