La prima edizione di Frankenstein fu pubblicata nel 1818, Mary Shelley ci lavorò tra il 1816 e il 1817 durante il soggiorno in Svizzera nella Maison Chapuis; con lei Percy Shelley e nella residenza accanto Bryon e John Polidori. Assieme, tra notti di laudano e conversazioni letterarie, portarono a termine la sfida per la stesura di una storia «che parlasse delle paure misteriose insite nella nostra natura, e che risvegliasse brividi di orrore», così scrive Mary nei suoi diari. Polidori cominciò a lavorare alla novella che lo ha reso celebre, Il vampiro; Byron, il solito indipendente, si occupò di Mazeppa, mentre Mary Shelley diede vita a Frankenstein. La sua idea scaturisce da un sogno: una creatura maligna che la osserva mentre riposa, «con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande». Al romanzo contribuisce anche il poeta Percy Shelley, che revisiona le bozze, dialoga con Mary e la spinge verso la pubblicazione.
Della storia di Mary e delle sue due creature, il Dottor Victor Frankenstein e la creatura mostruosa che porta in vita, si occupa La donna che scrisse Frankenstein della scrittrice e traduttrice argentina Esther Cross, tradotto da Serena Bianchi per La Nuova Frontiera. Un saggio che ribadisce il valore letterario di Frankenstein, intatto da più di due secoli, e amplia le possibilità di analisi così che gli strati della storia facciano emergere nuove chiavi di lettura.
Mary Shelley fu una figura chiave nel mondo che la formò. Rivelò una realtà che la includeva senza riuscire a contenerla e, nel farlo, la definì. Se alcuni scrittori plasmano il contesto in cui vivono, lei crebbe nell’epoca di Frankenstein.
Quando Mary incontra Percy Shelley a sedici anni lei, scappa con lui lasciandosi alle spalle la famiglia; l’evento fu scandaloso (Percy era sposato e aveva una figlia), ma sarà l’inizio di un’intesa di cuori e intelletti inossidabile. Dopo la morte prematura di Shelley per un naufragio, infatti, a Mary verrà consegnato il suo cuore, letteralmente, simbolo del loro legame. Tuttora il cuore di Shelley giace nella tomba di lei.
Tuttavia non è Shelley certo a darle la spinta per la produzione letteraria: Mary Shelley compone Frankenstein a soli 18 anni e non è un’adolescente inesperta, bensì una letterata già consapevole per eredità di famiglia: nata Mary Wollstonecraft Godwin e figlia di Mary Wollstonecraft, filosofa e femminista, «rivoluzionaria e paladina dei diritti delle donne», e del filosofo e politico William Godwin. Le idee progressiste di entrambi contribuiscono a formare la giovane Mary che scrive fin dall’infanzia e legge gli scritti della madre, morta dieci giorno dopo il parto, mantenendo con lei una connessione. Cross scrive che la giovane Mary è spesso sulla tomba della madre a occuparsi dei suoi componimenti. Intanto contestualizza il suo immaginario: figlia di un tempo in cui il contatto con la morte è particolare e sinistro, tra studi anatomici, ratti di cadaveri e prime evidenze scientifiche della fisiologia umana. Victor Frankenstein è ispirato a tutti gli intellettuali e scienziati che ha conosciuto nella sua vita.
A riprova dell’autonomia artistica di Mary Shelley, del romanzo arriverà una seconda versione, nel 1831, quando Percy Shelley è già scomparso da un pezzo, con piccole variazioni di trama, ma con la stessa identica forza narrativa. Victor Frankenstein sempre vittima della sua stessa personalità prevaricante, creatore del mostro, ma restio ad ammettere ad alta voce le proprie colpe; l’intera vicenda di cui sarà artefice rimarrà un lungo rimuginare tra un’empia uccisione e l’altra. Il mostro, la creatura, d’altro canto, è talmente legato al suo creatore da assumerne il nome nell’immaginario comune e da confondere i ruoli di padrone e schiavo; esemplare di una mascolinità distorta, cieca e violenta tanto quanto quella del Dottore. Esther Cross attribuisce un tratto comune ai due personaggi: un timore assoluto nei confronti della solitudine, quella che si autoinfligge e in cui sprofonda Victor, ma anche quella a cui condanna il mostro privandolo della compagna. Ed è la creatura femminile richiesta dal mostro a Frankenstein uno dei perni delle recenti analisi femministe del romanzo, che Cross lambisce solamente nei capitoli dedicati alla formazione dell’autrice, ma che val la pena citare. Le recenti analisi critiche, infatti, si inseriscono nel quando ampio proposta da Cross e puntano a dimostrare come la stessa assenza di personaggi femminili rilevanti sia la più importante presa di posizione di Shelley in merito alla “questione femminile”, e Frankenstein, il romanzo, diventa la prova letteraria di ciò succede quando è un uomo superbo a prendersi carico dell’atto di creazione relegando le donne, Elizabeth, Justin e la creatura che mai vedrà la luce, a mere spettatrici. In una seconda analisi critica si aggiunge un ulteriore strato: la paura di Victor, profondamente patriarcale, che la creatura femminile possa acquisire libero arbitrio e autonomia, dettaglio che le consentirebbe di generare altri mostri insieme alla creatura, ma soprattutto scegliere un destino diverso da quello per lei designato. È una prospettiva così intollerabile che sarà Victor stesso a negarle l’esistenza.
Tornando al saggio di Cross, l’analisi si completa con ciò che segue la pubblicazione e il racconto della vita di Mary dopo la perdita del suo Percy. Continuerà a scrivere firmando racconti e testi con la dicitura “l’autrice di Frankenstein”; lotterà per le carte inedite del poeta di cui curerà l’opera omnia, tramandando ai posteri i propri messaggi solo attraverso le note dell’edizione, inibita dalla famiglia di lui; si struggerà per le assenze del compagno di vita e dei figli perduti, e intanto la sua creatura letteraria (il romanzo, ma soprattutto i suoi personaggi) continuerà a farsi strada per arrivare fino al ventunesimo secolo intatta nella sua lungimiranza, come Cross con cura dimostra.




Eroine di Kate Zambreno (Nottetempo, traduzione di Federica Principi) è un saggio, un memoir e un manifesto. Il punto di partenza è l’ossessione personale dell’autrice per le biografie delle mogli del modernismo, autrici e artiste mogli dei grandi geni del modernismo in lingua inglese, relegate all’oblio oscurate dalla fama dei mariti. Donne silenziate dalla storia e dal sistema patriarcale che ha diagnosticato loro ogni forma di disturbo disperdendo il patrimonio artistico che avevano messo insieme. In questo testo ampiamente documentato, ma anche istintivo e furioso, Zambreno racconta le loro storie e quelle delle autrici che sono venute dopo ma che hanno subito lo stesso trattamento. Un’occasione importante per riflettere sull’oblio a cui la narrativa scritta da autrici è destinato, un compendio della vita tragica di Zelda Fitzgerald, Vivien(ne) Eliot, ma impossibile non citare anche Virginia Woolf, Jean Rhys, Kate Chopin, e, tra le altre, anche Charlotte Perkins Gilman e il suo racconto fondato della narrativa femminista “La carta da parati gialla”.


Non ci sono altre anime in giro, persino il bar è deserto, ma sempre illuminato con entusiasmo. Il centro esatto delle coreografie di LED multicolore è una stella grande quanto l’ingresso, uno stargate natalizio che a P. è piaciuto dal primo momento in cui l’ha visto. Ha provato anche a cercarne una versione più contenuta per il suo balcone di casa, ma la più piccola, alta come un bambino, costava una fortuna. Con cento euro di lucine, ci aveva ragionato a fondo, avrebbe dovuto rinunciare a dieci cene con la pizza d’asporto, tre pranzi con gli amici quando li avrebbe rivisti, undici film al cinema da solo e persino sette spese essenziali dal fruttivendolo vicino casa. Sconfitto dal rigore logico dei conti, P. aveva optato per una mesta serie di luci bianche alimentate da tre pile stilo, rivelatesi presto incapaci di reggere la pressione del timer dell’accensione notturna. Si sono affievolite già intorno al dieci dicembre, con somma mestizia di P. e forse anche del quartiere intero che, senza dichiararlo, contava anche sul suo balcone addobbato a festa. A pensarci adesso, a passeggio nella nebbia, gli si pianta in mezzo alla fronte una tristezza malsana che immagina evidente come un’insegna luminosa che lo irride. Eccolo qui, l’uomo triste senza luci e senza amici in questa città che non gli appartiene, ma scritto con mille luccicanti LED multicolore. Nella vergogna, lo consola solo il pensiero che, in una notte come questa, la nebbia ne attenuti i contorni così da renderlo finalmente libero. P. esprime, allora, il primo desiderio dell’anno e lo fa con la voce solenne che rimbomba nella testa: «Vorrei raccogliere questa nebbia bianca e conservarla nelle tasche per attenuare i contorni dell’insegna luminosa che ho in mezzo alla fronte e far credere che sia una stella, la più brillante del quartiere, la più colorata della città». Conclusa la formula magica, P. si concede un ultimo tentativo: allunga le braccia davanti a sé e tende le mani fredde verso il bianco in fondo alla strada. Finalmente la sente. È nebbia lattiginosa e fresca, proprio come la immaginava, soffice come cotone, voluminosa come ovatta. Ne pizzica giusto un assaggio, l’essenziale per trasformare in stella la sua insegna luminosa personale, e lo ripone nelle tasche. Poi, con i talloni sollevati e la testa più leggera, riprende a camminare verso casa abbracciando il bianco che gli viene incontro.
È il 1979 nella fittizia contea di Zebulon in Iowa, cuore del Midwest statunitense, e Larry Cook decide di suddividere i suoi mille acri di possedimenti alle tre figlie, Ginny, Rose e Caroline, in un passaggio di consegne che ricalca il Re Lear di Shakespeare. È questa l’idea di partenza di Erediterai la terra, il romanzo di Jane Smiley del 1991, vincitore del premio Pulitzer, tornato nelle librerie italiane nell’edizione de La Nuova Frontiera tradotta da Raffaella Vitangeli.

Donne nella nebbia della scrittrice Laura Acero, tradotto da Serena Bianchi, è la mia introduzione fortunata al catalogo di Ventanas. 
E/o edizioni pubblica in Italia La preda, un libro di Damon Galgut del 1995, quando nella prima metà della sua carriera di scrittore, e ancora lontano dal Booker Prize conquistato nel 2021 con 
Lei si chiama Cassie è una dipendente di una grossa azienda tecnologica della Silicon Valley, ritratta, nell’incipit, mentre si confonde nella folla del ritorno a casa di quelli che lei chiama Credenti, che in questo caso nulla hanno a che fare con la religione: il loro unico credo è il profitto. Nella sua disperazione fanno incursione l’uomo e il suo gesto estremo, e l’angoscia di Cassie monta e assume le sembianze di un placido e minaccioso buco nero nel senso puramente astronomico del termine, che fluttua sopra la sua testa e cambia in dimensione a seconda dell’umore di lei. Cassie e il buco nero sono un sistema binario, per mutuare ancora un termine dell’astrofisica, due entità inscindibili attratte dalla forza gravitazionale che le tiene insieme soprattutto nel dolore. È questo il guizzo narrativo più riuscito di un romanzo non completamente nuovo, ma comunque sincero e contemporaneo.
Ho due cani e ciò fa di me la lettrice ideale di Il suo odore dopo la pioggia di Cédric Sapin-Defour, pur consapevole della direzione verso la quale mi avrebbe portata. Volevo sentirmi raccontare, da parole che non fossero le mie, l’amore grande e «tenace», come lo definisce l’autore, per quattro zampe rumorose, una coda mobile e un tartufo umido. Ciò che ho trovato in questo libro non mi ha delusa: un punto di vista in cui riconoscermi, ma anche dal quale discostarmi, perché noi “padronə”, se mi si lascia passare il termine obsoleto, siamo tuttə ugualə eppure tuttə diversə, come lo sono i cani che ci accompagnano per parte della nostra esistenza. Il libro, però, non si esaurisce parlando solo a chi ha un cane, anzi, esplora la relazione delle persone con l’intero mondo animale ed è una lezione per tutte e tutti.