Mary Shelley, La donna che scrisse Frankenstein

ritratto di Mary Shelley

La prima edizione di Frankenstein fu pubblicata nel 1818, Mary Shelley ci lavorò tra il 1816 e il 1817 durante il soggiorno in Svizzera nella Maison Chapuis; con lei Percy Shelley e nella residenza accanto Bryon e John Polidori. Assieme, tra notti di laudano e conversazioni letterarie, portarono a termine la sfida per la stesura di una storia «che parlasse delle paure misteriose insite nella nostra natura, e che risvegliasse brividi di orrore», così scrive Mary nei suoi diari. Polidori cominciò a lavorare alla novella che lo ha reso celebre, Il vampiro; Byron, il solito indipendente, si occupò di Mazeppa, mentre Mary Shelley diede vita a Frankenstein. La sua idea scaturisce da un sogno: una creatura maligna che la osserva mentre riposa, «con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande». Al romanzo contribuisce anche il poeta Percy Shelley, che revisiona le bozze, dialoga con Mary e la spinge verso la pubblicazione.

Della storia di Mary e delle sue due creature, il Dottor Victor Frankenstein e la creatura mostruosa che porta in vita, si occupa La donna che scrisse Frankenstein della scrittrice e traduttrice argentina Esther Cross, tradotto da Serena Bianchi per La Nuova Frontiera. Un saggio che ribadisce il valore letterario di Frankenstein, intatto da più di due secoli, e amplia le possibilità di analisi così che gli strati della storia facciano emergere nuove chiavi di lettura.

 

Mary Shelley fu una figura chiave nel mondo che la formò. Rivelò una realtà che la includeva senza riuscire a contenerla e, nel farlo, la definì. Se alcuni scrittori plasmano il contesto in cui vivono, lei crebbe nell’epoca di Frankenstein.

Quando Mary incontra Percy Shelley a sedici anni lei, scappa con lui lasciandosi alle spalle la famiglia; l’evento fu scandaloso (Percy era sposato e aveva una figlia), ma sarà l’inizio di un’intesa di cuori e intelletti inossidabile. Dopo la morte prematura di Shelley per un naufragio, infatti,  a Mary verrà consegnato il suo cuore, letteralmente, simbolo del loro legame. Tuttora il cuore di Shelley giace nella tomba di lei.

Tuttavia non è Shelley certo a darle la spinta per la produzione letteraria: Mary Shelley compone Frankenstein a soli 18 anni e non è un’adolescente inesperta, bensì una letterata già consapevole per eredità di famiglia: nata Mary Wollstonecraft Godwin e figlia di Mary Wollstonecraft, filosofa e femminista, «rivoluzionaria e paladina dei diritti delle donne», e del filosofo e politico William Godwin. Le idee progressiste di entrambi contribuiscono a formare la giovane Mary che scrive fin dall’infanzia e legge gli scritti della madre, morta dieci giorno dopo il parto, mantenendo con lei una connessione. Cross scrive che la giovane Mary è spesso sulla tomba della madre a occuparsi dei suoi componimenti. Intanto contestualizza il suo immaginario: figlia di un tempo in cui il contatto con la morte è particolare e sinistro, tra studi anatomici, ratti di cadaveri e prime evidenze scientifiche della fisiologia umana. Victor Frankenstein è ispirato a tutti gli intellettuali e scienziati che ha conosciuto nella sua vita.

A riprova dell’autonomia artistica di Mary Shelley, del romanzo arriverà una seconda versione, nel 1831, quando Percy Shelley è già scomparso da un pezzo, con piccole variazioni di trama, ma con la stessa identica forza narrativa. Victor Frankenstein sempre vittima della sua stessa personalità prevaricante, creatore del mostro, ma restio ad ammettere ad alta voce le proprie colpe; l’intera vicenda di cui sarà artefice rimarrà un lungo rimuginare tra un’empia uccisione e l’altra. Il mostro, la creatura, d’altro canto, è talmente legato al suo creatore da assumerne il nome nell’immaginario comune e da confondere i ruoli di padrone e schiavo; esemplare di una mascolinità distorta, cieca e violenta tanto quanto quella del Dottore. Esther Cross attribuisce un tratto comune ai due personaggi: un timore assoluto nei confronti della solitudine, quella che si autoinfligge e in cui sprofonda Victor, ma anche quella a cui condanna il mostro privandolo della compagna. Ed è la creatura femminile richiesta dal mostro a Frankenstein uno dei perni delle recenti analisi femministe del romanzo, che Cross lambisce solamente nei capitoli dedicati alla formazione dell’autrice, ma che val la pena citare. Le recenti analisi critiche, infatti, si inseriscono nel quando ampio proposta da Cross e puntano a dimostrare come la stessa assenza di personaggi femminili rilevanti sia la più importante presa di posizione di Shelley in merito alla “questione femminile”, e Frankenstein, il romanzo, diventa la prova letteraria di ciò succede quando è un uomo superbo a prendersi carico dell’atto di creazione relegando le donne, Elizabeth, Justin e la creatura che mai vedrà la luce, a mere spettatrici. In una seconda analisi critica si aggiunge un ulteriore strato: la paura di Victor, profondamente patriarcale, che la creatura femminile possa acquisire libero arbitrio e autonomia, dettaglio che le consentirebbe di generare altri mostri insieme alla creatura, ma soprattutto scegliere un destino diverso da quello per lei designato. È una prospettiva così intollerabile che sarà Victor stesso a negarle l’esistenza.

Tornando al saggio di Cross, l’analisi si completa con ciò che segue la pubblicazione e il racconto della vita di Mary dopo la perdita del suo Percy. Continuerà a scrivere firmando racconti e testi con la dicitura “l’autrice di Frankenstein”; lotterà per le carte inedite del poeta di cui curerà l’opera omnia, tramandando ai posteri i propri messaggi solo attraverso le note dell’edizione, inibita dalla famiglia di lui; si struggerà per le assenze del compagno di vita e dei figli perduti, e intanto la sua creatura letteraria (il romanzo, ma soprattutto i suoi personaggi) continuerà a farsi strada per arrivare fino al ventunesimo secolo intatta nella sua lungimiranza, come Cross con cura dimostra.

L’horror secondo Mariana Enriquez

copertina della raccolta Un luogo soleggiato per gente ombrosa Mariana Enriquez

Mariana Enriquez è la punta di diamante della narrativa contemporanea argentina, maestra dell’horror letterario, ha reso possibile trasferire l’orrore della fragile contemporaneità in un mondo letterario pauroso per davvero in cui i corpi si modificano, decadono, si deturpano senza possibilità di salvezza. Eppure le sue protagoniste, la maggioranza in questa nuova raccolta, Un luogo soleggiato per gente ombrosa, pubblicata da Marsilio nella traduzione di Fabio Cremonesi, combattono contro ogni forza terrena e sovrannaturale per rivendicare la libertà e la riconquista della propria voce. Le donne di Mariana Enriquez confortano i fantasmi della violenza di stato, ne inseguono altri, più personali, persi lungo la strada, si trasformano, si confrontano con la morte, il male e strani esseri, il tutto per rivendicare un posto nel mondo fuori dagli schemi imposti dal patriarcato.

 

L’articolo su L’Indipendente.
copertina della raccolta Un luogo soleggiato per gente ombrosa Mariana Enriquez

Per approfondire

Mariana Enriquez intervistata da The center for fiction.

Il dialogo sui corpi trasgressivi dei racconti di Mariana Enriquez.

Un’intervista sul Guardian.

A LatinAmerican writer“, intervista a Sydney.

Le eroine del modernismo di Kate Zambreno

Il libro Eroine di kate Zambreno in una libreria. In copertina i volti delle protagoniste del saggio

Il libro Eroine di kate Zambreno in una libreria. In copertina i volti delle protagoniste del saggioEroine di Kate Zambreno (Nottetempo, traduzione di Federica Principi) è un saggio, un memoir e un manifesto. Il punto di partenza è l’ossessione personale dell’autrice per le biografie delle mogli del modernismo, autrici e artiste mogli dei grandi geni del modernismo in lingua inglese, relegate all’oblio oscurate dalla fama dei mariti. Donne silenziate dalla storia e dal sistema patriarcale che ha diagnosticato loro ogni forma di disturbo disperdendo il patrimonio artistico che avevano messo insieme. In questo testo ampiamente documentato, ma anche istintivo e furioso, Zambreno racconta le loro storie e quelle delle autrici che sono venute dopo ma che hanno subito lo stesso trattamento. Un’occasione importante per riflettere sull’oblio a cui la narrativa scritta da autrici è destinato, un compendio della vita tragica di Zelda Fitzgerald, Vivien(ne) Eliot, ma impossibile non citare anche Virginia Woolf, Jean Rhys, Kate Chopin, e, tra le altre, anche Charlotte Perkins Gilman e il suo racconto fondato della narrativa femminista “La carta da parati gialla”.

L’articolo completo è su L’indiependente.

Per approfondire

Nell’articolo sono citati “La carta da parati gialla” nella versione pubblicata da Galaad edizioni tradotta da Luca Sartori e con un’introduzione di Alessandra Calanchi.
Scrivere femminista di Azélie Fayolle edito da Nero nella traduzione di Laura Marzi.
I dive under covers, l’analisi di Sheila Heiti.

L’insegna luminosa

Bari strada con nebbia
Sfiancato dal dibattito che più l’ha coinvolto nei giorni natalizi, ovvero se a Bari facesse freddo davvero o si trattava di una parvenza d’inverno, concentrato soprattutto sul ruolo dell’umido capace di abbassare la temperatura percepita e raggiungere le ossa gelandole dall’interno, oppure banale patina di goccioline d’acqua appiccicate a ogni auto, edificio e persino sul portone di casa, il giovane P. passeggia da solo nella nebbia, la novità metereologica dell’anno appena iniziato. A vederla appare candida e fradicia e più volte P. tenta di afferrarla con una mano per capirne la consistenza, ma più si avvicina e più quella si ritrae dal suo tocco bambino. Quello che deduce lo immalinconisce: se gli oggetti lontani appaiono ovattati nei contorni ed emergono con pudore a ogni passo di lui, le immediate vicinanze mantengono l’apparenza spoglia e priva di mistero. È la solita vita di P. che non si arrende alla nebbia.

Bari strada con nebbiaNon ci sono altre anime in giro, persino il bar è deserto, ma sempre illuminato con entusiasmo. Il centro esatto delle coreografie di LED multicolore è una stella grande quanto l’ingresso, uno stargate natalizio che a P. è piaciuto dal primo momento in cui l’ha visto. Ha provato anche a cercarne una versione più contenuta per il suo balcone di casa, ma la più piccola, alta come un bambino, costava una fortuna. Con cento euro di lucine, ci aveva ragionato a fondo, avrebbe dovuto rinunciare a dieci cene con la pizza d’asporto, tre pranzi con gli amici quando li avrebbe rivisti, undici film al cinema da solo e persino sette spese essenziali dal fruttivendolo vicino casa. Sconfitto dal rigore logico dei conti, P. aveva optato per una mesta serie di luci bianche alimentate da tre pile stilo, rivelatesi presto incapaci di reggere la pressione del timer dell’accensione notturna. Si sono affievolite già intorno al dieci dicembre, con somma mestizia di P. e forse anche del quartiere intero che, senza dichiararlo, contava anche sul suo balcone addobbato a festa. A pensarci adesso, a passeggio nella nebbia, gli si pianta in mezzo alla fronte una tristezza malsana che immagina evidente come un’insegna luminosa che lo irride. Eccolo qui, l’uomo triste senza luci e senza amici in questa città che non gli appartiene, ma scritto con mille luccicanti LED multicolore. Nella vergogna, lo consola solo il pensiero che, in una notte come questa, la nebbia ne attenuti i contorni così da renderlo finalmente libero. P. esprime, allora, il primo desiderio dell’anno e lo fa con la voce solenne che rimbomba nella testa: «Vorrei raccogliere questa nebbia bianca e conservarla nelle tasche per attenuare i contorni dell’insegna luminosa che ho in mezzo alla fronte e far credere che sia una stella, la più brillante del quartiere, la più colorata della città». Conclusa la formula magica, P. si concede un ultimo tentativo: allunga le braccia davanti a sé e tende le mani fredde verso il bianco in fondo alla strada. Finalmente la sente. È nebbia lattiginosa e fresca, proprio come la immaginava, soffice come cotone, voluminosa come ovatta. Ne pizzica giusto un assaggio, l’essenziale per trasformare in stella la sua insegna luminosa personale, e lo ripone nelle tasche. Poi, con i talloni sollevati e la testa più leggera, riprende a camminare verso casa abbracciando il bianco che gli viene incontro.

Foto di Alessia Ragno.

I veleni dell’Iowa: Erediterai la terra di Jane Smiley

Copertina del romanzo Erediterai la terra: una donna bionda di spalle osserva un campo di grano

Copertina del romanzo Erediterai la terra: una donna bionda di spalle osserva un campo di granoÈ il 1979 nella fittizia contea di Zebulon in Iowa, cuore del Midwest statunitense, e Larry Cook decide di suddividere i suoi mille acri di possedimenti alle tre figlie, Ginny, Rose e Caroline, in un passaggio di consegne che ricalca il Re Lear di Shakespeare. È questa l’idea di partenza di Erediterai la terra, il romanzo di Jane Smiley del 1991, vincitore del premio Pulitzer, tornato nelle librerie italiane nell’edizione de La Nuova Frontiera tradotta da Raffaella Vitangeli.
Ispirazione shakespeariana, ma svolgimento tutto originale per un romanzo che è un’epopea moderna che riverbera anche nel contemporaneo: è in quella stessa società patriarcale, violenta e oppressiva che si fondano le radici degli Stati Uniti attuali. Smiley porta sullo stesso piano narrativo temi differenti: intanto la farmer crisis degli anni ’80 nel cuore agricolo degli Stati Uniti, la svolta femminista di una storia antica (il Re Lear per l’appunto), e la costruzione di personaggi complessi che affondano prima nell’inedia, poi nella disperazione e infine riconquistano il loro posto nel mondo, ma a caro prezzo. Su tutte e tutti svetta Ginny, la voce narrante, dapprima conciliante fino quasi a diventare martire del padre violento, e poi fenice che risorge dalla distruzione della sua famiglia.

Jane Smiley fotografata da Irene Medina, per gentile concessione de La Nuova Frontiera.
L’analisi del romanzo e della poetica di Jane Smiley è su L’indiependente.

Per approfondire

King Lear in Zebulon County, la recensione sul New York Times nel 1991

A talk with Jane Smiley

John Updike scrive di Jane Smiley

Due interviste di Jane Smiley in occasione del lancio dell’opera teatrale tratta da Erediterai la terra a Des Moines in Iowa.
Jane Smiley alla Des Moines Metro Opera 
Alla Iowa Pbs

Donne nella nebbia di Laura Acero

Donne nella nebbia della scrittrice Laura Acero, tradotto da Serena Bianchi, è la mia introduzione fortunata al catalogo di Ventanas.
Siamo in Colombia, per la precisione nel páramo di Sumapaz, alle porte di Bogotà. un luogo antico per la sua storia, ma estremamente moderno per criticità. Ogni páramo, territorio tipico degli altopiani tropicali al di sopra dei tremila metri diffusi in Centro America, ma anche nel nord-ovest africano, è minacciato duramente dalla crisi climatica in atto, ma ancora di importanza cruciale per la Colombia, più in particolare per Bogotà nel caso di Sumapaz, perché trattasi dell’unico serbatoio idrico della capitale ora minacciato da urbanizzazione e cambiamento climatico. 

Una donna, di cui non viene mai svelato il nome, è in viaggio verso Sumapaz, per condurre un laboratorio di scrittura con le donne del luogo, ma anche per distaccarsi da una maternità che l’ha stravolta. Un romanzo breve e importante intanto per l’ambientazione, cruciale per la storia del paese, ma anche nell’ottica ecologica vista l’importanza di certi ecosistemi per la sopravvivenza umana, ecosistemi puntualmente minacciati dal cambiamento climatico. Ma Donne nella nebbia è importante anche per il ritratto di un mondo arcaico e, ovviamente, patriarcale che opprime e abusa. A contrastarlo un’unica forza: le comunità femminili come quella che va a formarsi per il laboratorio di scrittura. 

L’analisi completa del romanzo è su L’indiependente.

La preda, Damon Galgut

Copertina de La Preda, romanzo di Damon Galgut. un paesaggio oscuro di campagna e una croce in primo piano.

Copertina de La Preda, romanzo di Damon Galgut. un paesaggio oscuro di campagna e una croce in primo piano.E/o edizioni pubblica in Italia La preda, un libro di Damon Galgut del 1995, quando nella prima metà della sua carriera di scrittore, e ancora lontano dal Booker Prize conquistato nel 2021 con La promessa, l’autore sudafricano esplorava il suo habitat naturale, ovvero le storie di uomini tormentati in un Sudafrica spietato. La preda è un romanzo breve e circolare, che narra il dualismo atavico tra vittime e carnefici e ne esplora le contraddizioni. La vicenda è quella di un uomo, un fuggitivo senza nome, che nella sua fuga incontra un prete in viaggio verso la sua nuova congrega. A seguito di un alterco fra i due, il fuggitivo uccide il prete e ne assume l’identità. Il suo futuro prossimo, però, è minato continuamente dal senso di colpa e da drammatiche coincidenze. Echi immediati di Uomini e topi di Steinbeck, con una miseria più moderna, ma non certo meno tragica, e un’ambientazione sviluppata sia nel reale che nel piano onirico, luogo in cui gli spettri del senso di colpa sono più difficile da arginare.

L’analisi completa del romanzo è su L’Indiependente.

La favola horror dei millennial secondo Sarah Rose Etter

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San Francisco

In un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del suo secondo romanzo Ripe (in Italia Qui non c’è niente per te, ricordi? edito da La Nuova Frontiera nella traduzione di Lorenzo Medici), Sarah Rose Etter spiega come per lei l’incipit, o meglio ancora la frase iniziale, sia fondamentale per definire il tono di una storia, nonché responsabile del carico emotivo da distribuire nelle pagine a seguire. Nel caso di questo romanzo un uomo si dà fuoco in una strada periferica di San Francisco; non c’è modo di tornare indietro dopo un impatto del genere che dà il via all’escalation di dolore della protagonista e voce narrante.

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San FranciscoLei si chiama Cassie è una dipendente di una grossa azienda tecnologica della Silicon Valley, ritratta, nell’incipit, mentre si confonde nella folla del ritorno a casa di quelli che lei chiama Credenti, che in questo caso nulla hanno a che fare con la religione: il loro unico credo è il profitto. Nella sua disperazione fanno incursione l’uomo e il suo gesto estremo, e l’angoscia di Cassie monta e assume le sembianze di un placido e minaccioso buco nero nel senso puramente astronomico del termine, che fluttua sopra la sua testa e cambia in dimensione a seconda dell’umore di lei. Cassie e il buco nero sono un sistema binario, per mutuare ancora un termine dell’astrofisica, due entità inscindibili attratte dalla forza gravitazionale che le tiene insieme soprattutto nel dolore. È questo il guizzo narrativo più riuscito di un romanzo non completamente nuovo, ma comunque sincero e contemporaneo.
Cassie spera di confondersi tra i Credenti anche grazie alla droga che le consente di mantenere i ritmi richiesti dal lavoro nella culla del tech occidentale, ambiente tossico privo di scrupoli e di umanità. Ed è la tossicità della office culture uno dei nodi della vicenda che mostra il sistema capitalista statunitense al suo peggio. Qui non c’è niente per te, ricordi? segue la progressiva perdita di umanità di Cassie e delle pochissime persone che le gravitano intorno, perché l’isolamento di una grande città è l’altra piaga sociale di questa parte di Stati Uniti. Tra droga, relazioni superficiali con amiche e amanti, e abusi dei capi sul posto di lavoro, Cassie e il suo buco nero navigano le giornate col rimpianto di ciò che hanno lasciato per trasferirsi a San Francisco e di ciò che potrebbe essere in un futuro che sfugge inghiottito dagli albori della pandemia di Covid, il cambiamento climatico, i disordini sociali in città.

Ripe è il secondo romanzo di Etter, definita dal magazine statunitense Nylon «una profeta per le ragazze tristi», nuova esponente della cosiddetta sad girl lit, la letteratura delle ragazze tristi, che racconta proprio la desolazione di millennial e gen z in un mondo divorato dal sistema capitalista mentre finge di sostenerlo. Argomenti toccati ovviamente, anche dall’altra profeta millennial, Sally Rooney, da Ottessa Mosfegh, ma anche da esordi di pregio La gabbia dei conigli di Tess Gunty, ma tutto riporta alla sad girl lit originaria, ovvero le grandi aspirazioni di Etter: Sylvia Plath e Joan Didion. Due scrittrici che, è la stessa Etter a dirlo, non hanno mai avuto paura di raccontare la tristezza delle donne di cui hanno scritto senza mai ricorrere all’espediente letterario della redenzione.
Cassie, allora, a 33 anni e un anno di Silicon Valley alle spalle si mantiene a galla nel mare che è diventato la sua tristezza «aspettando che il senso della vita mi si schiuda davanti».

I non Credenti come me sono qui nel tentativo di issarsi […] negli strati più rarefatti del benessere. Siamo venuti qui per reinventarci, con dietro famiglie che ci spingono ad avanzare, mani sulla schiena che ci esortano ad andare ad Ovest, a trovare l’oro. 

Ma ad aspettarci, qui ad Ovest, ci sono interminabili ore di pendolarismo, un susseguirsi di email e notifiche, progetti segretissimi e scadenze impossibili. Non importa se sei un Credente oppure no: la pressione atmosferica di San Francisco ti cambia, ti plasma, fa di te un nuovo tipo di lavoratore. Mi ha cambiata.

In questa vita, che a un’analisi più attenta è solo sopravvivenza, Cassie cataloga dettagli scientifici sul suo buco nero personale e i ricordi mai felici nei frequenti stati dissociativi innescati dalla sofferenza mentale, il tutto per dare a sé stessa l’illusione che qualcosa si possa davvero controllare. Il paradosso è che il buco nero è l’unica entità ad avere compassione di lei fin da bambina, cresciuta da una madre invalidante e aggressiva e un padre emotivamente distante. Fugge allora dalla famiglia, ma tutto ciò che trova è un sistema produttivo esasperato, un marketing bugiardo e standard disumani, il pozzo senza fondo del sistema occidentale che sopprime la dimensione umana della vita.
Etter narra con perizia, e, unico difetto, una leggera ripetitività, la costruzione dell’ansia di Cassie e scrive la favola horror della generazione millennial che si è preparata per un futuro che non è mai arrivato come glielo hanno raccontato e tutto ciò che è rimasto e ridotto in macerie. In questo Etter centra il segno: l’ingresso nella vita adulta è traumatico e reso buio da un buco nero che si allarga a dismisura.

Non è sempre così che inizia l’età adulta? Sei convinta di diventare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. All’inizio, nuoti con veemenza contro la corrente, il corpo che si sforza finché i muscoli non cedono, finché non ce la fai più a spingere, finché non smetti di lottare e galleggi, lasciando che l’acqua ti riporti a riva, dove il resto del mondo è già in ufficio, a sgobbare sotto il candore di una luce perennemente diurna e produttiva.

Ancora più interessante la sua struttura che si svela nella lettura e segue gli strati della melagrana ritratta nelle prime pagine, più evidente nell’edizione statunitense: dall’epicarpo di Cassie, ovvero il suo lavoro, il ruolo nella società e nella famiglia di origine, si viaggia verso il suo io più profondo fino al cuore, dove il dolore risiede. Un romanzo concentrico che trova nel finale la sua realizzazione ottimale, con delicatezza e un cenno al surreale che lasciano, a chi legge, la libertà di interpretare in autonomia il futuro di Cassie.

Il suo odore dopo la pioggia, Cèdric Sapin-Defour

Un profilo di cane bovaro del bernese in bianco e nero sulal copertina del romanzo Il suo odore dopo la pioggia

Un profilo di cane bovaro del bernese in bianco e nero sulal copertina del romanzo Il suo odore dopo la pioggiaHo due cani e ciò fa di me la lettrice ideale di Il suo odore dopo la pioggia di Cédric Sapin-Defour, pur consapevole della direzione verso la quale mi avrebbe portata. Volevo sentirmi raccontare, da parole che non fossero le mie, l’amore grande e «tenace», come lo definisce l’autore, per quattro zampe rumorose, una coda mobile e un tartufo umido. Ciò che ho trovato in questo libro non mi ha delusa: un punto di vista in cui riconoscermi, ma anche dal quale discostarmi, perché noi “padronə”, se mi si lascia passare il termine obsoleto, siamo tuttə ugualə eppure tuttə diversə, come lo sono i cani che ci accompagnano per parte della nostra esistenza. Il libro, però, non si esaurisce parlando solo a chi ha un cane, anzi, esplora la relazione delle persone con l’intero mondo animale ed è una lezione per tutte e tutti.
Il suo odore dopo la pioggia è un libro maschile – uomo chi lo scrive, maschio il cane, Ubac -, a dimostrarlo alcune frasi, definizioni, metafore e piccoli episodi, uno su tutti la rissa che Ubac seda tra il padrone e due uomini incontrati sulla strada di casa. Non credo che mai una delle mie due cane (le chiamo così, al femminile) mi difenderebbe mai in un alterco. Nella consapevolezza che la dinamica di relazione col proprio cane è personale, e convinta che essere una donna con due cani femmina mi renda differente (non migliore, solo differente) da un uomo accompagnato dal suo cane maschio, ciò che questo libro coglie in pieno è la felicità di una relazione mai replicabile, istintiva e totalizzante e la consapevolezza che senza le mie cane io non sarei la persona che sono adesso, perché loro insegnano a me più di quanto io insegni a loro. Sapin-Defour si dedica con trasporto a circostanziare questo scambio biunivoco cane-uomo e ciò che ne risulta è un libro che è un memoir con vanità, limiti e convinzioni, ma anche una cogitazione filosofica altissima sul senso delle cose e la loro finitezza. E alla finitezza dei cani non ci si può abituare mai. «Tra l’adozione e il lutto c’è un soffio», scrive l’autore, e io mi affanno di continuo a raccogliere tutto il fiato possibile perché ogni fibra vitale delle mie cane rimanga sempre con me. “Il suo odore dopo la pioggia” è anche una lettera d’amore per l’«energia sfavillante» di un cane che soccombe alla sua finitezza, così come si arrenderanno tutti gli altri cani su questa terra arcigna. «Riconoscerei il tuo odore dentro l’arca di Noè», scrive Sapin-Defour nel picco della sua tristezza, e io aggiungo che riconoscerò anche le voci e il tocco delle mie cane, così come loro riconosceranno la mia voce e il mio tocco, ed è questa reciprocità che ci farà vivere insieme per sempre.

L’Autobiografia in movimento di Deborah Levy

romanzi e libri di Deborah Levy esposto in una libreria
romanzi e libri di Deborah Levy esposto in una libreria

In una delle tante interviste, la scrittrice, drammaturga, poeta britannica di origini sudafricane Deborah Levy afferma che la scrittura della sua Autobiografia in movimento, una trilogia di volumi, le ha cambiato la vita, nonché la prospettiva come scrittrice e come donna. Quello che Levy non aggiunge è che la trilogia composta da Cose che non voglio sapere, Il costo della vita e Bene immobile, cambia non solo chi l’ha scritta, ma anche chi la legge. Non si è più le stesse persone dopo aver letto tutto ciò che Levy circostanzia e realizza nel corso della sua vita come donna, ovvio, ma anche come scrittrice e femminista.
L’autobiografia in movimento è pubblicata in Italia da NN editore nella traduzione di Gioia Guerzoni, in un formato memorabile e prezioso, tanto quanto il lavoro intellettuale di Levy. Non si tratta però di una autobiografia canonica, non c’è la nostalgia, il rigido ordine cronologico, né la voglia di dire così tanto di sé. L’autobiografia in movimento è, piuttosto, un ibrido: talvolta saggio, talvolta narrativa di viaggio, altre volte autobiografia. E per sostenere le sue tesi, come autrice e pensatrice, Levy chiama a sé la storia della letteratura e tutte le autrici e gli autori che l’hanno resa ciò che è adesso: una delle più grandi nonostante un mondo patriarcale, costruito da uomini per altri uomini a loro immagine e somiglianza.

L’analisi completa della trilogia di Autobiografia in Movimento di Deborah Levy è su L’Indiependente.

Per approfondire

Deborah Levy ha scritto anche numerosi romanzi, L’uomo che aveva visto tutto è pubblicato da NN editore.

Deborah Levy intervistata dal New Yorker.

Deborah Levy in conversazione con lo scrittore Andrew Durbin.

Un video dell’autrice inglese che racconta il suo approccio alla scrittura.