La favola horror dei millennial secondo Sarah Rose Etter

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San Francisco

In un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del suo secondo romanzo Ripe (in Italia Qui non c’è niente per te, ricordi? edito da La Nuova Frontiera nella traduzione di Lorenzo Medici), Sarah Rose Etter spiega come per lei l’incipit, o meglio ancora la frase iniziale, sia fondamentale per definire il tono di una storia, nonché responsabile del carico emotivo da distribuire nelle pagine a seguire. Nel caso di questo romanzo un uomo si dà fuoco in una strada periferica di San Francisco; non c’è modo di tornare indietro dopo un impatto del genere che dà il via all’escalation di dolore della protagonista e voce narrante.

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San FranciscoLei si chiama Cassie è una dipendente di una grossa azienda tecnologica della Silicon Valley, ritratta, nell’incipit, mentre si confonde nella folla del ritorno a casa di quelli che lei chiama Credenti, che in questo caso nulla hanno a che fare con la religione: il loro unico credo è il profitto. Nella sua disperazione fanno incursione l’uomo e il suo gesto estremo, e l’angoscia di Cassie monta e assume le sembianze di un placido e minaccioso buco nero nel senso puramente astronomico del termine, che fluttua sopra la sua testa e cambia in dimensione a seconda dell’umore di lei. Cassie e il buco nero sono un sistema binario, per mutuare ancora un termine dell’astrofisica, due entità inscindibili attratte dalla forza gravitazionale che le tiene insieme soprattutto nel dolore. È questo il guizzo narrativo più riuscito di un romanzo non completamente nuovo, ma comunque sincero e contemporaneo.
Cassie spera di confondersi tra i Credenti anche grazie alla droga che le consente di mantenere i ritmi richiesti dal lavoro nella culla del tech occidentale, ambiente tossico privo di scrupoli e di umanità. Ed è la tossicità della office culture uno dei nodi della vicenda che mostra il sistema capitalista statunitense al suo peggio. Qui non c’è niente per te, ricordi? segue la progressiva perdita di umanità di Cassie e delle pochissime persone che le gravitano intorno, perché l’isolamento di una grande città è l’altra piaga sociale di questa parte di Stati Uniti. Tra droga, relazioni superficiali con amiche e amanti, e abusi dei capi sul posto di lavoro, Cassie e il suo buco nero navigano le giornate col rimpianto di ciò che hanno lasciato per trasferirsi a San Francisco e di ciò che potrebbe essere in un futuro che sfugge inghiottito dagli albori della pandemia di Covid, il cambiamento climatico, i disordini sociali in città.

Ripe è il secondo romanzo di Etter, definita dal magazine statunitense Nylon «una profeta per le ragazze tristi», nuova esponente della cosiddetta sad girl lit, la letteratura delle ragazze tristi, che racconta proprio la desolazione di millennial e gen z in un mondo divorato dal sistema capitalista mentre finge di sostenerlo. Argomenti toccati ovviamente, anche dall’altra profeta millennial, Sally Rooney, da Ottessa Mosfegh, ma anche da esordi di pregio La gabbia dei conigli di Tess Gunty, ma tutto riporta alla sad girl lit originaria, ovvero le grandi aspirazioni di Etter: Sylvia Plath e Joan Didion. Due scrittrici che, è la stessa Etter a dirlo, non hanno mai avuto paura di raccontare la tristezza delle donne di cui hanno scritto senza mai ricorrere all’espediente letterario della redenzione.
Cassie, allora, a 33 anni e un anno di Silicon Valley alle spalle si mantiene a galla nel mare che è diventato la sua tristezza «aspettando che il senso della vita mi si schiuda davanti».

I non Credenti come me sono qui nel tentativo di issarsi […] negli strati più rarefatti del benessere. Siamo venuti qui per reinventarci, con dietro famiglie che ci spingono ad avanzare, mani sulla schiena che ci esortano ad andare ad Ovest, a trovare l’oro. 

Ma ad aspettarci, qui ad Ovest, ci sono interminabili ore di pendolarismo, un susseguirsi di email e notifiche, progetti segretissimi e scadenze impossibili. Non importa se sei un Credente oppure no: la pressione atmosferica di San Francisco ti cambia, ti plasma, fa di te un nuovo tipo di lavoratore. Mi ha cambiata.

In questa vita, che a un’analisi più attenta è solo sopravvivenza, Cassie cataloga dettagli scientifici sul suo buco nero personale e i ricordi mai felici nei frequenti stati dissociativi innescati dalla sofferenza mentale, il tutto per dare a sé stessa l’illusione che qualcosa si possa davvero controllare. Il paradosso è che il buco nero è l’unica entità ad avere compassione di lei fin da bambina, cresciuta da una madre invalidante e aggressiva e un padre emotivamente distante. Fugge allora dalla famiglia, ma tutto ciò che trova è un sistema produttivo esasperato, un marketing bugiardo e standard disumani, il pozzo senza fondo del sistema occidentale che sopprime la dimensione umana della vita.
Etter narra con perizia, e, unico difetto, una leggera ripetitività, la costruzione dell’ansia di Cassie e scrive la favola horror della generazione millennial che si è preparata per un futuro che non è mai arrivato come glielo hanno raccontato e tutto ciò che è rimasto e ridotto in macerie. In questo Etter centra il segno: l’ingresso nella vita adulta è traumatico e reso buio da un buco nero che si allarga a dismisura.

Non è sempre così che inizia l’età adulta? Sei convinta di diventare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. All’inizio, nuoti con veemenza contro la corrente, il corpo che si sforza finché i muscoli non cedono, finché non ce la fai più a spingere, finché non smetti di lottare e galleggi, lasciando che l’acqua ti riporti a riva, dove il resto del mondo è già in ufficio, a sgobbare sotto il candore di una luce perennemente diurna e produttiva.

Ancora più interessante la sua struttura che si svela nella lettura e segue gli strati della melagrana ritratta nelle prime pagine, più evidente nell’edizione statunitense: dall’epicarpo di Cassie, ovvero il suo lavoro, il ruolo nella società e nella famiglia di origine, si viaggia verso il suo io più profondo fino al cuore, dove il dolore risiede. Un romanzo concentrico che trova nel finale la sua realizzazione ottimale, con delicatezza e un cenno al surreale che lasciano, a chi legge, la libertà di interpretare in autonomia il futuro di Cassie.

Il suo odore dopo la pioggia, Cèdric Sapin-Defour

Un profilo di cane bovaro del bernese in bianco e nero sulal copertina del romanzo Il suo odore dopo la pioggia

Un profilo di cane bovaro del bernese in bianco e nero sulal copertina del romanzo Il suo odore dopo la pioggiaHo due cani e ciò fa di me la lettrice ideale di Il suo odore dopo la pioggia di Cédric Sapin-Defour, pur consapevole della direzione verso la quale mi avrebbe portata. Volevo sentirmi raccontare, da parole che non fossero le mie, l’amore grande e «tenace», come lo definisce l’autore, per quattro zampe rumorose, una coda mobile e un tartufo umido. Ciò che ho trovato in questo libro non mi ha delusa: un punto di vista in cui riconoscermi, ma anche dal quale discostarmi, perché noi “padronə”, se mi si lascia passare il termine obsoleto, siamo tuttə ugualə eppure tuttə diversə, come lo sono i cani che ci accompagnano per parte della nostra esistenza. Il libro, però, non si esaurisce parlando solo a chi ha un cane, anzi, esplora la relazione delle persone con l’intero mondo animale ed è una lezione per tutte e tutti.
Il suo odore dopo la pioggia è un libro maschile – uomo chi lo scrive, maschio il cane, Ubac -, a dimostrarlo alcune frasi, definizioni, metafore e piccoli episodi, uno su tutti la rissa che Ubac seda tra il padrone e due uomini incontrati sulla strada di casa. Non credo che mai una delle mie due cane (le chiamo così, al femminile) mi difenderebbe mai in un alterco. Nella consapevolezza che la dinamica di relazione col proprio cane è personale, e convinta che essere una donna con due cani femmina mi renda differente (non migliore, solo differente) da un uomo accompagnato dal suo cane maschio, ciò che questo libro coglie in pieno è la felicità di una relazione mai replicabile, istintiva e totalizzante e la consapevolezza che senza le mie cane io non sarei la persona che sono adesso, perché loro insegnano a me più di quanto io insegni a loro. Sapin-Defour si dedica con trasporto a circostanziare questo scambio biunivoco cane-uomo e ciò che ne risulta è un libro che è un memoir con vanità, limiti e convinzioni, ma anche una cogitazione filosofica altissima sul senso delle cose e la loro finitezza. E alla finitezza dei cani non ci si può abituare mai. «Tra l’adozione e il lutto c’è un soffio», scrive l’autore, e io mi affanno di continuo a raccogliere tutto il fiato possibile perché ogni fibra vitale delle mie cane rimanga sempre con me. “Il suo odore dopo la pioggia” è anche una lettera d’amore per l’«energia sfavillante» di un cane che soccombe alla sua finitezza, così come si arrenderanno tutti gli altri cani su questa terra arcigna. «Riconoscerei il tuo odore dentro l’arca di Noè», scrive Sapin-Defour nel picco della sua tristezza, e io aggiungo che riconoscerò anche le voci e il tocco delle mie cane, così come loro riconosceranno la mia voce e il mio tocco, ed è questa reciprocità che ci farà vivere insieme per sempre.

L’Autobiografia in movimento di Deborah Levy

romanzi e libri di Deborah Levy esposto in una libreria
romanzi e libri di Deborah Levy esposto in una libreria

In una delle tante interviste, la scrittrice, drammaturga, poeta britannica di origini sudafricane Deborah Levy afferma che la scrittura della sua Autobiografia in movimento, una trilogia di volumi, le ha cambiato la vita, nonché la prospettiva come scrittrice e come donna. Quello che Levy non aggiunge è che la trilogia composta da Cose che non voglio sapere, Il costo della vita e Bene immobile, cambia non solo chi l’ha scritta, ma anche chi la legge. Non si è più le stesse persone dopo aver letto tutto ciò che Levy circostanzia e realizza nel corso della sua vita come donna, ovvio, ma anche come scrittrice e femminista.
L’autobiografia in movimento è pubblicata in Italia da NN editore nella traduzione di Gioia Guerzoni, in un formato memorabile e prezioso, tanto quanto il lavoro intellettuale di Levy. Non si tratta però di una autobiografia canonica, non c’è la nostalgia, il rigido ordine cronologico, né la voglia di dire così tanto di sé. L’autobiografia in movimento è, piuttosto, un ibrido: talvolta saggio, talvolta narrativa di viaggio, altre volte autobiografia. E per sostenere le sue tesi, come autrice e pensatrice, Levy chiama a sé la storia della letteratura e tutte le autrici e gli autori che l’hanno resa ciò che è adesso: una delle più grandi nonostante un mondo patriarcale, costruito da uomini per altri uomini a loro immagine e somiglianza.

L’analisi completa della trilogia di Autobiografia in Movimento di Deborah Levy è su L’Indiependente.

Per approfondire

Deborah Levy ha scritto anche numerosi romanzi, L’uomo che aveva visto tutto è pubblicato da NN editore.

Deborah Levy intervistata dal New Yorker.

Deborah Levy in conversazione con lo scrittore Andrew Durbin.

Un video dell’autrice inglese che racconta il suo approccio alla scrittura.

Le storie delle donne: Edna O’Brien

Copertina della trilogia di Edna O'Brien ragazze di campagna: un campo di fiori rossi dipinto su tela

Copertina della trilogia di Edna O'Brien ragazze di campagna: un campo di fiori rossi dipinto su telaLa credenza comune che le autrici scrivano solo per le donne resiste ancora, più nello specifico resiste l’idea che la narrativa scritta da donne sia destinata a non durare perché più esile e priva dello spessore dei romanzi dei mostri sacri universalmente riconosciuti. Le autrici, dicono, creano fenomeni passeggeri, validi solo per l’appagamento che una buona trama sa comunque dare. Appagamento, ovviamente, destinato alle sole lettrici perché intanto gli uomini non leggono donne, preferiscono la letteratura seria, dicono, ma anche perché secondo i rilevamenti ISTAT, in Italia nel 2022 la percentuale delle lettrici era del 44%, quella dei lettori del 34.3%. Se però il pubblico è prevalentemente donna, la scrittura professionale è un affare da uomini per uomini e inevitabilmente insegna anche alle donne a scrivere come uomini, con i conseguenti cliché. Solo gli uomini, anzi alcuni uomini, possono parlare, scrivere e discorrere di letteratura. E le storie delle donne dove sono? Quando ci va bene sono scritte dagli uomini, reinterpretate e criticate da altri uomini, oggetto di scherno e facile ironia quando i suddetti uomini arrivano a catalogare la narrativa femminile, forse indispettiti da scelte oltraggiose, come quando il New York Times in uno dei suoi giochi letterari ha scelto come miglior libro del XXI secolo L’amica Geniale di Elena Ferrante. Questo affronto ha scatenato la scena letteraria italiana abituata a pendere dalle parole degli scrittori, critici, ed editor uomini. Credo, allora, che sia responsabilità diretta di lettrici e lettori quella di smuovere un panorama letterario asfittico e riportare le storie delle donne al centro, dove per storie delle donne intendo narrativa scritta da autrici, dedicata alle vite delle donne e alla loro complessità, argomenti che hanno evidente legittimità letteraria. Penso, a questo proposito, alla legittimità di Piccole Donne, tuttora messa in discussione anche da alcune scrittrici, e da Louisa May Alcott tiro una linea immaginaria nello spazio e nel tempo per congiungerla alla trilogia di Ragazze di campagna di Edna O’Brien.

In entrambe i casi si tratta di storie di donne in crescita alla scoperta del proprio posto nel mondo. Sono serie di romanzi differenti, ma unite dal destino comune: sottovalutate, trascurate, ridicolizzate e, se osano troppo, censurate. I tre romanzi della serie Ragazze di campagna è stato presentato per decenni come lo scandaloso romanzo di formazione di due giovani donne nell’Irlanda della seconda metà Novecento, in realtà si tratta del pregiato ritratto letterario di una terra complicata e di cosa volesse dire essere giovani donne cattoliche nelle zone rurali dell’isola. Una storia che solo una scrittrice proveniente dalla contea di Clare poteva ideare.

La trilogia è composta da romanzi – Ragazze di campagna, La ragazza sola e Ragazze nella felicità coniugale – pubblicati tra il 1960 e il 1964, e costituiscono l’esordio nella narrativa di Edna O’Brien. Da allora O’ Brien, scomparsa nell’estate del 2024, ha scritto altri diciassette romanzi, un memoir, innumerevoli racconti, saggi, poesie, libri per ragazze e ragazzi e opere teatrali. Non aveva nessuna formazione letteraria, tutto talento, all’inizio, affinato dalla costanza e dalla quantità delle pagine scritte negli anni. Lei stessa racconta l’influenza che ha avuto, dopo la prima stesura, una lezione su Hemingway e Fitzgerald tenutasi a Londra, un segnale che la induce a riscrivere il manoscritto con un’attenzione ulteriore sulla lingua usata, adesso più essenziale. Eterno il suo amore per Proust e Virgina Woolf, a quest’ultima dedica persino una pièce teatrale, tante anche le amicizie illustri nel mondo letterario – uno su tutti Philip Roth. Ma Edna O’Brien è stata soprattutto, per merito della sua scrittura, una delle più grandi autrici irlandesi di tutti i tempi.

La famiglia l’aveva costretta a studiare farmacia, dopo gli anni di studio a Dublino e un periodo come commessa, O’Brien si sposa con lo scrittore Ernest Gébler e con lui e i suoi due figli si trasferisce a Londra. Ragazze di campagna è il tributo alla sua vita nella terra natia, autobiografico solo in alcuni dettagli. Fu l’amico Iain Hamilton a suggerirle di provare a scrivere un romanzo dopo i primi lavori per alcuni giornali locali. Lei scrive Ragazze di campagna in poche settimane, poco dopo l’arrivo a Londra con la famiglia, chiede al marito di leggerlo e lui pronuncia il responso: «You can do it and I’ll never forgive you». Uomini.
Il matrimonio con Gébler, uomo duro, ombroso e abusante, finì poco dopo e O’Brien riuscì a conquistare la custodia dei due figli, nonché a consolidare il suo mestiere di scrittrice. Poco dopo l’uscita del primo romanzo, O’Brien fu notata dai critici e censurata dall’Irish Censorship Board, l’invito esplicito era quello di bruciare i suoi scritti, perché nessuna nell’Irlanda del secolo scorso aveva osato scrivere della crescita di una donna, della scoperta dell’amore romantico e di quello sensuale, dell’erotismo quotidiano, di psicanalisi e dell’inevitabile allontanamento dalla religione.
O’Brien segue Caithleen Brady detta Kate e Bridget Brennan detta Baba, le due protagoniste, sin dalla prima adolescenza, passando per l’espulsione dalla scuola cattolica, fino all’arrivo a Dublino e le relazioni con uomini violenti, la normalità di quell’epoca. E nonostante le delusioni, i matrimoni fallimentari, le scelte sbagliate e la dipendenza affettiva, Kate e Baba rimangono spiritose, ingenue, insolenti e piene di vita e di domande, crudeli l’una con l’altra come solo le ragazze sanno fare, ma sempre unite da un dettaglio comune: essere donne in un contesto ostile alla loro vitalità. Quella di O’Brien è pura avanguardia letteraria, con Kate che parla di psicoanalisi e Baba di relazioni sessuali, entrambe alla ricerca dell’indipendenza economica, ma soprattutto del dissenso, a modo loro, verso la morale imperante. Quella di Kate e Baba è un’avventura che non può prescindere da uomini molesti, violenti verbalmente e fisicamente, uomini di chiesa decisi a imporre la loro morale, mascalzoni senza possibilità di redenzione. E loro, le ragazze, si ritrovano a diventare vittime sacrificali di un sistema patriarcale ancora lontano dall’essere scardinato. Se non è contemporaneità questa.

Le scogliere di Moher nella COunty Clare
Le scogliere di Moher nella County Clare
In una serie di documentari dedicati alla scrittrice irlandese e al suo rapporto con la terra madre, O’Brien cammina sulle scogliere della sua contea nel vento che sferza il mare, in altre inquadrature tocca la sabbia delle spiagge e si confonde nella vegetazione limitrofa, poi la regia stacca e la riprende a fianco dei genitori. Siamo negli anni ‘70, O’Brien è all’inizio della sua carriera, ha una chioma voluminosa di capelli rossi, un cardigan di lana spessa e una sciarpa leggera al collo. In alcuni estratti racconta la vita a Londra, la nascita dei romanzi e le feste con amici illustri: Marlon Brando, John Updike, Sean Connery, Philip Roth, e gli incontri occasionali con Elizabeth Taylor, Richard Burton e la principessa Margaret. In altre inquadrature la sua voce fuori campo si sofferma sull’Irlanda e a un certo punto dice: «There’s something secretly catastrophic about a country from which so many people do, escape», ed è una verità difficile da digerire tuttora.

Quella di Edna O’Brien è stata una vita straordinaria, ma ancora più straordinarie sono state le vite delle protagoniste che ha ideato e di cui ha scritto fino alla fine affinché la letteratura, e le storie, fossero anche delle donne.

Foto di Alessia Ragno e di Shannon DaGrava da Pixabay.

Una vita migliore

La stazione di Molfetta in una giornata di sole
La stazione di Molfetta in una giornata di sole
Stazione di Molfetta, giugno 2010.

Sulla banchina della stazione si inseguono due carte appallottolate, ma nel movimento non si riesce a distinguere quale delle due sia il fazzoletto e quale l’involucro di un gelato. Peppino si concentra per seguire il loro movimento e a guardare bene gli viene il dubbio che la palla di carta più grande possa appartenere a una di quelle merende di cioccolato e biscotto che abbondano nel distributore all’ingresso. Nel pieno della sua analisi, però, le carte finiscono sui binari in un sussulto per poi riprendere a ruotare su loro stesse e l’una intorno all’altra, sfiorandosi più volte e allontanandosi di poco, fino a quando il passaggio di un treno veloce le solleva altissime sopra la tettoia e per almeno dieci secondi, Peppino li conta mentalmente, scompaiono dalla sua vista. Sono andate verso una vita migliore, pensa lui facendosi trasportare dalla coreografia dei due involucri abbandonati, vorrei seguirle fin su nel cielo, aggiunge mentre le immagina nella loro trasformazione da spazzatura a creature dell’aria. Nessuno dei presenti in stazione è attento alle due carte scomparse, sono amiche esclusive di Peppino a quanto pare, ma quando ricadono lontane, dopo che il vortice di vento ha lasciato la stazione, lui sconsolato si dice che si è sbagliato, sono solo spazzatura e nemmeno questa volta hanno cambiato il loro destino. Si intristisce un poco quando prendono a rotolare nella direzione opposta e si perdono per sempre. Peppino immagina di scendere sui binari e riunirle, ma è un pensiero fulmineo che si dissolve nella realtà che lo richiama a sé con gli annunci in diffusione e il passeggio di pochi pendolari accaldati.
Al binario uno sta arrivando il regionale da Bari, sa che è ancora presto per ritornare a casa, ma guarda comunque l’ora sul telefonino per calcolare con esattezza quanto tempo manca all’ora di pranzo. È un rito fondamentale perché gli permette di scandire i tempi della mattina e, cosa più importante di tutte, con la precisione che l’ha sempre contraddistinto riesce a evitare l’ora di punta del panificio sulla strada di casa. Si muoverà a mezzogiorno e quindici così da trovarsi in cucina per le tredici, quando inizia il telegiornale. Ogni giorno intorno al tavolo, con il suo quartino di pane fresco, l’olio buono, le verdure di stagione e una scatoletta di tonno quando è pigro o una frittatina quando ha voglia di cucinare, ci sono Peppino, il giornalista che legge le notizie in tv e il gatto Max sulla sedia libera. Che fortuna che c’è Max, si dice sempre, anche se non risponde mai a nessuna sua domanda, nemmeno un miagolio per tenerlo contento, non si fa accarezzare e vive nell’armadio d’inverno e sulla mensola della finestra d’estate, sempre a debita distanza, a parte quando riconosce l’apertura della scatoletta di tonno.

Da quando è in pensione, un anno esatto a settembre, Peppino passa ogni mattina in stazione. Adesso riconosce i vari dipendenti, i bigliettai, la giovane coppia che gestisce l’edicola senz’aria condizionata, e persino i volti di alcuni pendolari gli risultano oramai familiari. Con qualcuno accenna un saluto cortese, ricambiato con cura, con altre scambia una chiacchiera sul meteo e i ritardi dei treni. La domenica è il giorno più duro: il personale della stazione è ridotto, i pendolari non ci sono, i treni sono di meno, ma Peppino arriva comunque di buon’ora e alle sette e trenta è già sulla panchina della piattaforma principale. Non importa se piove o c’è il sole perché la banchina è riparata e se fa molto caldo è sufficiente aspettare il passaggio del treno veloce che non fa fermata e stride sui binari e negli ingranaggi perché ha fretta di andare. L’aria che smuove gli si infila nella camicia e in quel momento di furia del vento sente di poter essere sincero e immagina di librarsi in aria come le carte abbandonate sui binari. Ultimamente quando è certo di essere solo, soprattutto dopo l’ora di punta o più spesso di domenica, Peppino grida insieme al treno, coperto dai rumori di ferraglia che lo rendono invisibile. Grida spingendosi con le mani sulla panchina per farsi forza, la voce esce con tale impeto che sente le corde vocali strapparsi, ma non gli importa perché così butta fuori i dolori del suo cuore invecchiato di colpo. Quando anche l’ultima carrozza abbandona la stazione, lasciando dietro di sé solo un residuo di vento, Peppino si ricompone, anche se gli occhi rimangono lucidi per un bel po’ dopo ogni seduta. Le chiama proprio sedute come se fosse una conversazione terapeutica tra lui e un dottore, ma quando il treno dottore va via non saluta mai.
Una volta durante una seduta un’addetta alle pulizie mai incontrata prima, e di cui non aveva fatto in tempo ad accorgersi, aveva lanciato secchio e scope per terra per lo spavento scappando a passo svelto verso l’uscita. Mortificato, Peppino aveva sollevato gli attrezzi e ricomposto il carrello dei detersivi per riportarlo alla donna che si era nascosta in biglietteria. Non era riuscito a parlare con lei per la vergogna e il dispiacere, ma gli era stato detto che il bigliettaio le avesse spiegato la situazione. Dopo quella volta aveva prestato più attenzione, ma la donna, si chiamava Antonia, continuava a guardarlo con sospetto ogni volta che lo incontrava.

La mattina del ventisette giugno, una domenica, Peppino arriva in stazione alle sette e mezza come al solito, beve il caffè al bar e scambia due chiacchiere con il ragazzo nuovo alla macchinetta del caffè, vispo nonostante la sonnolenza; si dirige verso la solita panchina con in mano una fetta di crostata all’albicocca acquistata nel bar e una pesca gialla che si è portato da casa per la merenda di metà mattina. Il ragazzo vispo gli ha avvolto il dolce con un tovagliolo e quello non solo si è appiccicato alla marmellata, ma non ha nemmeno impedito che la punta di frolla si sbriciolasse nella bustina di carta. Se ne accorge quando è già seduto sulla panchina, in procinto di mangiare. Alla vista della fetta di crostata accartocciata e piena di carta pensa alla spazzatura svolazzante del giorno prima e si dispera, ma lo fa in silenzio, con un pizzicore nuovo che gli solletica il naso e gli occhi che si velano velocemente, ma altrettanto velocemente ritornano sicuri e solo un po’ rossi. Mastica crostata e brandelli di tovagliolo con aria rassegnata, che scena pietosa, si dice quando per una strana coincidenza cosmica riesce a guardarsi dall’esterno. Sono un vecchio triste e patetico, stravolto come questa fetta di crostata.

Sono passati due anni e mezzo da quel giorno in cui è arrivato in stazione e suo figlio non c’era. Il rito che avevano stabilito si è interrotto senza dargli il tempo per prepararsi. È l’ultima domenica di giugno di un anno che ha smesso di contare, di un tempo che avrebbe voluto non arrivasse mai. Con quel che resta del tovagliolo stretto alla punta delle dita della mano sinistra, Peppino rimane seduto composto con ancora qualche briciola nei baffi. Indossa un berretto con il logo della vecchia pizzeria sotto casa che non c’è più da anni, una camicia estiva a scacchi celesti, gli occhiali da lettura e il mazzetto di penne nel taschino per le parole crociate che comprerà dopo dal giornalaio. Il portafogli e il fazzoletto di stoffa sono invece al sicuro nella tasca laterale dei pantaloncini da pescatore. 

Peppino è seduto composto al centro del suo mondo, le mani poggia sulla pancia di pietra e il tovagliolo della crostata ancora tra le dita. Aspetta, anche se sa che ciò che aspetta non tornerà. Ma non importa, se l’è ripetuto tante volte, l’attesa stessa mi consola. L’attesa, infatti, lo sospende in un tempo in cui è tutto possibile, e può persino succedere che Massimo ritorni e scenda dal regionale Bari – Molfetta andandogli incontro a braccia spalancate. Chi può dirlo.

Ci hai messo così tanto a tornare Massimo, mi ero preoccupato, dirà Peppino quel giorno, stringendo a sé il corpo del figlio che odora di treno e stanchezza. Questi treni sono sempre in ritardo, non è colpa mia, risponderà lui infastidito. 

Peppino ha gli occhi chiusi e sorride, è così felice che il transito veloce del Roma-Lecce delle 11:38 lo sorprende, non l’ha sentito arrivare. Il treno fischia forte e Peppino sa che lo sta salutando e grida insieme a lui, anche se non ha controllato chi c’è sulla banchina. Ma questa volta non è la solita seduta per il dolore del cuore, è una conversazione che devono sentire tutti, persino Massimo dovunque egli sia. 

Aspetterò tutto il tempo che serve Massimo mio, dice Peppino in quell’urlo, scenderai da uno di questi treni e io sarò qui per te. Sono invecchiato, ma non ti devi spaventare perché sono sempre il tuo papà. Mi riconosci dalla camicia stirata di fresco e il cappello della pizzeria che ti piaceva tanto. Adesso l’hanno chiusa e mi dispiace assai, ma ti farò assaggiare la pizzetta del panificio sulla strada di casa che è comunque buona.

Quando il treno completa il transito in stazione, l’aria si fa veloce e il tovagliolo che avvolgeva la crostata gli scappa via dalle dita per volare in alto sopra la tettoia. Peppino aspetta che ricada per un bel po’, ma non si è più fatto vedere, nemmeno nei giorni successivi. Ha trovato davvero una vita migliore.

Foto di Alessia Ragno.

L’isola dove volano le femmine, l’esordio di Marta Lamalfa

Un libro davanti a una libreria, nelal copertina due donne sembrano spiccare il volo

Un libro davanti a una libreria, nelal copertina due donne sembrano spiccare il voloSi diceva che fossero capaci di magie e dispetti, ma soprattutto sapevano volare sopra le nuvole da Alicudi, nelle Eolie, fino a Palermo, in un battito di ciglia. Sono le majare, donne/streghe protagoniste dell’esordio nella narrativa di Marta Lamalfa per Neri Pozza, L’isola dove volano le femmine. Siamo ai primi del Novecento e la carestia ad Alicudi costringe gli abitanti a usare la segale cornuta per il proprio pane. La chiamano così perché ci sono delle piccole protuberanze nere sulle spighe, hanno un cattivo odore, di marcio e perduto. Questa segale li avvelenerà per anni: le protuberanze, dette tizzonare, contengono funghi velenosi e allucinogeni. Ma la fame è fame, soprattutto per una delle famiglie più povere della città. Sono i membri di questa famiglia gli altri protagonisti del romanzo, anime che Lamalfa segue con cura e a cui attribuisce una voglia di riscatto timida ma crescente.

Ritorno alla rubrica che mi diverte di più, le Tre Domande per scrittrici e scrittori esordienti, e con Marta Lamalfa dialoghiamo sulla costruzione del romanzo, delle intenzioni di scrittura, della lingua antica che costruisce per questo libro e del ruolo del Meridione nella narrativa italiana. 

Per approfondire

Il documentario L’isola analogica di Francesco G. Raganato dedicato alle leggende di Alicudi.

L’intervista: Milena Agus, Notte di vento che passa

Copertina romanzo Notte di vento che passa di Milena Agus: illustrazione di una ragazza legge un libro seduta sul ramo di un abero

Copertina romanzo Notte di vento che passa di Milena Agus: illustrazione di una ragazza legge un libro seduta sul ramo di un aberoCosima è una giovane donna che prova a capire il mondo, vive in una Sardegna luminosa e dolente tra Cagliari e il suo entroterra, con una madre avvelenata dalla vita, un padre sognatore e una famiglia a pezzi. A ricoprire un ruolo fondamentale nella sua formazione anche una professoressa di lettere e l’amico di sempre, Abya Yala, ma soprattutto i libri e le storie che contengono. La scrittrice cagliaritana Milena Agus torna al romanzo con Notte di vento che passa edito da Mondadori, opera che fa della letterarizzazione della vita il suo punto focale.
Letterarizzare significa leggere il reale con la lente del poetico, della letteratura, perché tutto si può ricondurre a una storia che è stata raccontata e talvolta scomparire per un poco in quella dimensione aiuta a rendere più tollerabile il reale. Con una grazia e una disponibilità impareggiabili, Milena Agus, autrice di lungo corso, finalista allo Strega con il suo Mal di Pietre, storia di una donna atipica e incompresa a partire dal Secondo Dopoguerra, mi ha concesso questa intervista. Il tema portante è l’identità e insieme parliamo di famiglia, di scrittura, di Sardegna e di come ci si realizza in questo sud avaro e bellissimo, se grazie a lui o suo malgrado.

Per approfondire

La nuova edizione di Mal di Pietre, Nottetempo.

Foto di Alessia Ragno.

Olivia Manning, La grande fortuna

Copertine inglese e italiana dei libri di Olivia Manning

La vita di Olivia Manning è stata un romanzo, non solo per le peripezie di gioventù in giro per Europa e Medio Oriente inseguita dalla Seconda guerra mondiale, ma soprattutto perché dedicata con convinzione alla letteratura in cerca del riconoscimento che meritava. Scrittrice prolifica di romanzi, giornalista, corrispondente di guerra, poetessa, autrice per la BBC una volta tornata in patria dopo la guerra, Manning ha lottato tutta la vita per rendere la sua scrittura immortale. Il riconoscimento, purtroppo, arriva dopo la morte della scrittrice, quando nel 1987 il suo capolavoro, ovvero la saga Fortunes of war viene trasposta in una serie televisiva di grande successo. La vicenda è quella dei giovanissimi coniugi Prince, Guy e Harriet, che arrivano nel settembre del 1939, alle porte della guerra, a Bucarest in Romania.

Fortunatamente Olivia Manning torna nelle librerie italiane proprio con la prima parte di Fortune of war, ovvero l’atto primo della trilogia dei Balcani, La grande fortuna, nella traduzione di Velia Februari per Fazi editore. Il viaggio di Harriet e Guy è appena iniziato.

 

L’analisi del romanzo e un ritratto letterario di Manning è su L’indiependente.

Per approfondire

Feminize your canon è la rubrica di The Paris review dedicata alle scrittrici dimenticate. La puntata dedicata a Olivia Manning.

Un articolo di archivio del NYTimes dedicato alla scrittrice britannica.

La voce di Olivia Manning in un programma radio della BBC del 1969.

La miniserie BBC tratta da Fortunes of war con Kenneth Branagh ed Emma Thompson.

Emily Austin, “Moriremo tutti, ma non oggi”

copertina del romanzo: illustrazione di una donna bionda con lo sguardo triste

Gilda (in inglese letto Ghilda) è una ventisettenne atea e omosessuale che soffre di ansia, attacchi di panico e depressione. Per un caso del destino si ritrova a essere assunta da una parrocchia cattolica nella sua città per ricoprire il ruolo di segretaria amministrativa: comincia così il romanzo Moriremo tutti, ma non oggi della scrittrice canadese Emily Austin, il suo esordio nella scrittura, pubblicato in Italia da Blackie edizioni. Un titolo che è un manifesto e che descrive perfettamente l’ossessione di Gilda per la morte, sua e delle persone che le sono intorno, e lo sviluppo dei suoi pensieri intrusivi inficiati dal disturbo d’ansia che la affligge. Ma in tutto questo Gilda si rivela subito come uno dei personaggi più comici della narrativa millennial degli ultimi anni e la sua vicenda si rivela non solo profondamente umana, ma anche tenera e malinconica.

Su L’indiependente analizzo il romanzo e lo contestualizzo nella scrittura delle donne millenial che tanto ha attirato l’editoria in questi ultimi anni, per fortuna, anche se con qualche stereotipo di troppo, purtroppo. Ma non c’è pericolo, Gilda è immune da questi stereotipi.

Leggi l’articolo su L’Indiependente.
copertina del romanzo: illustrazione di una donna bionda con lo sguardo triste

Per approfondire

Una recensione del romanzo su Kirkus Review.

La video intervista di Emily Austin per Sapph-Lit.

Foto di Alessia Ragno.