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Non è un campione

Un ramo di fico carico di foglie e frutti in diverse fasi di maturazione.

«Ti va se vengo a vederti giocare?»
«Quando?»
«Stamattina.»
«Perché vuoi venire?»
«Così, sono curiosa. Ma non rimango per tutta la partita, vengo verso la fine così non ti disturbo.»
«Ma guarda che non fanno entrare i non tesserati nella zona dei campi.»
«Gli dico che sono tua moglie.»
«Non puoi, devi avere la tessera. E poi con quante auto ci dobbiamo muovere oggi?»
«Ci vai con il tuo amico e poi torniamo a casa insieme con la mia macchina. Che dici?»
«E se non ti fanno entrare?»
«Se non mi fanno entrare ti aspetto nel parcheggio. Dai, è per fare qualcosa di diverso.»
«Oggi però è giorno di torneo, sarà una partita dura.»
«Meglio! Farò il tifo.»
«Patrizia per piacere, devo rimanere concentrato per giocare bene.»
«Non ti accorgerai che ci sono. Una toccata e fuga.»
Massimo solleva le spalle e allarga le braccia rassegnato, Patrizia gli sorride di rimando, l’idea di condividere finalmente la mattina col marito la rende felice.

Come ogni domenica, di buon’ora, Massimo è sulla soglia della porta che si carica in spalla il borsone del tennis riempito così tanto che la sera prima deve sempre chiedere aiuto a Patrizia per chiudere la cerniera. É un borsone di un tessuto tecnico spesso e nero, col logo in evidenza su un fianco e la cerniera fluo a contrasto. L’ha comprato ai saldi nella stagione precedente, uno sconto talmente conveniente che non gli si è proposta nemmeno una parvenza di senso di colpa.
«Ma sei sicuro che ti serva un borsone così grande?», gli aveva chiesto Patrizia al momento dell’acquisto.
«Non lo devo mica riempire tutto, è la qualità che conta. Anzi, consideralo un investimento e se mi dovessi mai fermare col tennis, cosa che non credo succederà a breve, lo rivendo online e ci guadagno.»
«Giusto» aveva risposto Patrizia, non ci aveva pensato.
Massimo, che in quel momento le stava dando le spalle, si era girato a guardarla spalancando gli occhi e portando l’indice destro alla fronte con un sorriso accennato sulle labbra strette: era il suo modo di dirle che anche questa volta aveva pensato a tutto, Patrizia non doveva preoccuparsi.

Nel giro di pochi mesi suo marito aveva accumulato un tale campionario di attrezzature e abbigliamento per il tennis che Patrizia provava un’accennata inquietudine: un cassetto pieno di completi tecnici, panni in microfibra per tamponare il viso e asciugare le mani, una moltiplicazione di fasce e polsini, palline di ricambio di una marca specifica, l’unica che rendeva durante le partite a suo parere, tre paia di scarpe professionali, la racchetta identica a quella di Nadal nella finale del Roland Garros del 2010 e tutto l’occorrente per sistemare il grip del manico. Del resto Patrizia ha perso il conto. È probabile che abbia esagerato con gli acquisti, ma Massimo ama essere preparato per ogni impresa.
Ogni domenica mattina, quindi, Massimo si carica in spalla con accuratezza il borsone, poi saluta Patrizia con un bacio sulla guancia e le dà appuntamento all’ora di pranzo, ricordandole del tennis nel circolo sportivo. Patrizia già lo sa, è un anno e mezzo che si ripete il rito, ma ogni domenica mattina gli risponde: «Perfetto, buon tennis. Ti aspetto a casa». Sempre la stessa frase.
«Grazie tesoro, ci vediamo più tardi» risponde lui. Sempre la stessa frase.
È andata così ogni domenica di ogni settimana, agosto compreso, tranne quella particolare domenica di primo inverno in cui Patrizia decide che è giunto il momento di affacciarsi su quel pezzo di vita del marito, vederlo giocare con gli amici e condividere il suo entusiasmo.

Mentre si prepara per l’avventura della mattina, Patrizia ripete in testa un piccolo mantra: «Non sto esagerando, vado solo a guardare». Due, tre, cinque volte di fila e senza prendere fiato. Non invade il suo piccolo mondo sportivo, si tratta di un’occhiata al finale della partita per vederlo realizzato in un mondo che a lei non appartiene. E poi lo aspetta fuori dal centro sportivo senza dare fastidio a nessuno e lo vedrà avvicinarsi, contento e vittorioso, col vapore che sale dai capelli tiepidi per la doccia, il tipico passo sbilenco e l’andatura inclinata per il peso del borsone. Il tennis è una passione recente, l’ultima nell’ordine cronologico che comprende qualche anno di calcetto, un paio di chitarra acustica, senza contare il lungo amore per la PlayStation e quel gioco di ruolo di cui non ricorda il nome. Si dedica a un sacco di cose il suo uomo tutto d’un pezzo, ma a Patrizia non è mai dispiaciuto, anzi, ammira lo spirito di sacrificio e la dedizione, soprattutto negli ultimi tempi con il tennis. Massimo ha frequentato un lungo corso nel centro sportivo più grande della città: prima le lezioni individuali, poi qualche partitella in solitaria e infine il giro dei tornei di doppio amatoriali. Ogni squadra sceglie il nome di una nazione e a fine torneo il premio in palio è l’abbonamento annuale al circolo e una coppa di ottone grande come un tavolino. Massimo gioca col suo amico Pasquale, insieme sono la Gran Bretagna ed entrambi indossano per scaramanzia un polsino con la Union Jack durante le partite più difficili. Non va mai a vederlo perché di comune accordo hanno separato i loro interessi, ma soprattutto Patrizia di solito preferisce godersi la domenica mattina a casa e fargli trovare il pranzo pronto. Tranne oggi. Massimo non ha mai saltato né una lezione né una partita, mostrando determinazione e costanza che Patrizia gli invidia con trasporto. Nemmeno un infortunio, che atleta che è diventato, cosa che a lei non è mai riuscita perché l’attività fisica non le viene naturale, con le sue anche rigide e la poca tolleranza alla fatica. Per un tempo brevissimo, anche meno di un mese, ha persino considerato di unirsi a Massimo in questa nuova avventura sportiva, ma riflettendoci bene ha desistito scoraggiata dagli allenamenti mattutini al freddo e i costi dell’attrezzatura. Patrizia non ha la pazienza di Massimo e nemmeno l’entusiasmo, ma d’altronde lui non ha mai mostrato particolare interesse per condividere la sua passione con lei. Non se ne è fatto niente di quell’ipotesi passeggera, ma sono entrambi convinti che non bisogna essere una coppia in tutto. A lui il tennis, a lei le domeniche mattina in relax.

E così anche quella domenica Massimo saluta Patrizia e lei, vedendolo uscire dalla porta, pensa all’appuntamento che si sono dati, tamburella le dita sul tavolo della colazione e canticchia: «Non sto esagerando, vado solo a guardare». Più canta, più si manifesta l’entusiasmo, fino a che, seduta nella cucina silenziosa, si vede riflessa nel forno vestita da tennista che ribatte ogni colpo sul campo mentre Massimo la osserva ammirato.
«Che pazienza che ha quest’uomo tutto d’un pezzo», pensa lei quando coi pensieri torna nella stanza, alludendo alla sua incapacità di tenere in mano una racchetta, alla pigrizia che Massimo le rimprovera quotidianamente e all’occasione perduta.
«Dovresti uscire. Perché la domenica mattina non vai a correre? O almeno una passeggiata» le dice spesso.
«Ma non mi va, io voglio riposarmi la domenica.»
«E dopo il riposo non potresti fare qualcosa in casa?»
«Non posso fare tutto io» è la sua tipica risposta.
«Non è vero che fai tutto tu» risponde lui inviperito.
«Chi si occupa della lavastoviglie? E chi della spazzatura?»
«Ma io lavo il bagno ogni tre giorni!»
Patrizia non sopporta questa discussione.
«Non vorrai mica l’applauso per ciò che fai? La gestione di una casa si condivide.»
«Patrizia, non voglio nessun applauso, ma guarda quanti abiti ci sono in giro. C’è una montagna di vestiti sulla poltrona della camera da letto. Sembra un mercato. Io non ho il tempo di occuparmi anche di quello, anche se mi preme farti notare che sono tutte cose tue» aggiunge Massimo in tono sarcastico.
«Non sono perfetta come te.»
«Patrizia non cominciare. Non è questione di perfezione, ma di un minimo di decenza. Ogni volta che ti togli una giacca la riponi nell’armadio, non è difficile.»
«Va bene Massimo, hai ragione tu.»
Massimo non risponde alla provocazione, ma continua sulla sua strada.
«Pensa se ci prendessimo davvero il gatto che continui a chiedermi, verrebbe sepolto dalle giacche.»
Ma Patrizia non lo ascolta già più e sposta l’attenzione sul cellulare per troncare la discussione che sbriciola quel poco di autostima nella sua corazza d’argilla, fragile. Sposarsi con Massimo è stata la scelta giusta anche per questo motivo: lui la stimola a costruire la versione migliore di sé. Certo, un po’ maestrino, ma in effetti la poltrona è un disastro, come lo sono anche la scrivania, l’armadio e il resto, e quando si discute si dicono sempre cose che non si pensano, emerge la parte peggiore di ognuno e non si ragiona su quanto ferisci il coniuge. È un discorso che Patrizia ha sempre pronto in testa, ripetuto ogni giorno durante la storia con Massimo. A onor del vero non è migliorata granché con i rimbrotti di lui, ma ognuna ha i suoi tempi, non bisogna forzare il cambiamento e quello del motivatore è un lavoro complesso e certosino.
«Per lui sono come il tennis, ci vuole allenamento, costanza e poi arrivano i miglioramenti.»

Quando è ora di uscire, Patrizia ha già assemblato la pasta al forno nella pirofila di vetro, ai piatti sporchi ci penserà quando torna e il pensiero le procura un brivido dietro il collo, Massimo borbotta sempre quando trova il lavello invaso. Ma oggi è un giorno speciale, se ne farà una ragione.
Non ha voglia di cambiarsi, rimanere in tuta le sembra una scelta accettabile per andare in un centro sportivo. Si copre bene indossando la giacca di pile, tira la zip fin sotto il mento e completa la preparazione con un berretto che Massimo non usa più da anni, da lui ribattezzato “il cappello di Pasqua”. «Sembri un uovo di Pasqua sorridente» è sempre il suo commento.
Si infila in auto senza togliersi il cappello di Pasqua, accende il motore e aziona il riscaldamento al massimo così che il rumore della ventola sovrasti la radio e ogni altro suono proveniente dall’esterno. In quel concerto Patrizia aspetta le prime note di scirocco artificiale prodotto dall’auto per eseguire qualsiasi altro movimento. Solo al primo tepore sfila le mani dalle tasche e inserisce la retromarcia per uscire dal parcheggio di casa. Non c’è molta strada da fare per arrivare al centro sportivo in cui Massimo gioca, solo grande traffico e continui incolonnamenti, anche di domenica. Nei primi dieci minuti la strada è talmente intasata che Patrizia rilegge qualche e-mail di lavoro, risponde a tre conversazioni differenti su whatsapp e scorre le notizie senza soffermarsi su nessuna, non vuole intristirsi. Allora sposta il pensiero sul tennis e inventa un altro mantra tenendo il ritmo sul volante: «Massimo gioca, io faccio il tifo». Prova a immaginarsi in doppio con Massimo ancora una volta, ma la fantasia ha perso forza e ritorna al mantra originario: «Non sto esagerando, vado solo a guardare». 

«Non sto esagerando, Massimo gioca e sarà divertente» dice infine Patrizia ad alta voce con una sorprendente variazione sul tema.

Il parcheggio del centro sportivo è gremito, fatta eccezione per un ultimo posto tra due auto parcheggiate male, reso ancora più stretto dai rami di un albero non potato. Patrizia si infila a rallentatore chiudendo gli specchietti della sua auto, ma senza aver calcolato lo spazio per aprire lo sportello e ripete la manovra per due volte nel tentativo di guadagnare spazio. Esce dall’abitacolo tirando in dentro la pancia e trattenendo il respiro, ma si impiglia la tasca nella manovella del finestrino. Quando raddrizza il busto, la tasca strappata pende dalla giacca. La solleva contrariata, mentre con la mano destra chiude a chiave l’auto. Con la tasca trattenuta, Patrizia attraversa il parcheggio preoccupata perché l’incidente ha fatto perdere il mantra. Adesso l’incursione le sembra una prepotenza nei confronti di Massimo.
«Darò solo una sbirciatina» dice mentre cammina con la tasca strizza nella mano sinistra. Scansa sportivi profumati di borotalco e sagome con il cappuccio che fissano gli schermi dei cellulari, un grande vociare diffuso la distrae ancora. C’è un uomo in pantaloncini in uno dei campi di padel che cattura la sua attenzione: solleva e abbassa le braccia senza un ritmo ben riconoscibile e gira in tondo come se volesse spiccare il volo al rallentatore. Due donne, stranamente eleganti per l’ora, fumano fuori dall’ingresso del centro sportivo accanto a un portacenere di pietra. Il loro respiro entra nella hall indisturbato. Ai loro piedi il tappeto con il logo è ricoperto di foglie spinte dal vento, ma c’è anche qualche rimasuglio di cenere che si solleva dopo ogni folata. Per fortuna nell’ingresso l’odore di sigaretta si perde velocemente, sostituito da quello del caffè e delle tazzine pulite e calde che tintinnano sul bancone. C’è solo un ragazzino dissonante dal resto della scena che beve Red Bull dalla lattina, chissà se si tratta di un premio post gara o di doping alternativo. Dopo qualche sorso gli occhi del ragazzino incontrano quelli di Patrizia, lei inclina la testa in cenno di approvazione, lui aggrotta le sopracciglia e volta le spalle. La delusione per la reazione dello sconosciuto viene interrotta dal passaggio di un gruppo di uomini molto avanti con l’età che attraversano la hall in tenuta da runner; il volume delle loro voci richiama l’attenzione di Patrizia e quando ritorna a guardare in direzione del ragazzo, lui non c’è più. Lo cerca nella stanza, ma quello che trova, invece, è più utile: la segnaletica per i campi da tennis. L’ultimo tratto che la separa dal mondo di Massimo è molto più breve di quello che aveva immaginato. Non sa se è pronta.
Un custode con la felpa del centro sportivo la saluta.
«Buongiorno signora, ha bisogno di aiuto?»
«Salve, sono la moglie di un socio. Posso andare ad assistere alla sua partita di tennis? Non ho la tessera però.»
«Signora può fare quello che vuole, non si preoccupi! Però la accompagno io perché l’accesso principale è chiuso. Ci facciamo due passi verso quello secondario.»
«La ringrazio, è molto gentile» risponde Patrizia con un sospiro di sollievo.
Patrizia lo segue preoccupandosi di sincronizzare il movimento dei suoi piedi con quelli del custode e lo fa per settantasette passi, li conta così da non fissarsi col dialogo che langue.
«I campi da tennis sono sempre pieni di domenica. Suo marito gioca da tanto?»
«Da più di un anno, ha fatto anche il corso col maestro.»
«Ah, il maestro Ruggiero. Bravo lui, chissà perché non ha avuto fortuna come tennista.»
«Non so come si chiami in realtà.»
«Se suo marito viene di domenica sarà sicuramente Ruggiero. Ha un rovescio potentissimo, lo dovrebbe vedere giocare.»
«Ma adesso mio marito ha finito il corso. Gioca nel torneo di doppio con un suo amico. La squadra si chiama Gran Bretagna.»
«Allora sono nel campo due, lì in fondo.»
«Sì, forse è quello lì» risponde Patrizia incerta.

Sono quasi giunti alla rete che delimita il campo e i quattro giocatori, prima fermi, sembra stiano per riprendere il match. Massimo è sul bordo campo, Patrizia lo riconosce dagli occhiali da vista col laccio elastico; è di turno per il servizio e indossa un completo aderente nero che non gli ha mai visto e una bandana giallo fluo annodata sul collo.
«Sembra un’enorme insetto» si lascia sfuggire ad alta voce e il custode se la ride sotto i baffi.
«Quello? Guardi, guardi come gioca» e continua a ridere.
Massimo fa rimbalzare la pallina sulla superficie del campo chinandosi in avanti solo leggermente, la posa è plastica, ma i movimenti non hanno coordinazione e non le pare abbia nemmeno un equilibrio stabile. Con la mano sinistra lancia la pallina verso l’alto, la racchetta nella destra la colpisce in maniera così sbilenca e con tale potenza che sia palla che racchetta si schiantano sul paletto esterno che regge la rete. Il custode ride sollevando le spalle, Massimo va a raccogliere la racchetta e chiede scusa agli altri giocatori.
«Forse ha perso la presa» dice Patrizia al custode, ma lui non risponde.
Nessuno degli altri due tentativi di servizio di Massimo va a buon fine e la partita prosegue con un fallo attribuito alla Gran Bretagna, mentre i due giocatori dell’altra squadra, la Svezia, si parlano a distanza ravvicinata.
Patrizia è sorpresa e le azioni di gioco che seguono aggravano la situazione.
Massimo si muove sotto rete anche quando non sembra necessario, il suo compagno di squadra indietreggia goffamente con le scarpe che fanno attrito sulla gomma del campo; si direbbe una strategia, ma non è efficace e quando uno della Svezia, quello in tuta lucida in stile Italia ‘90, serve con una precisione fortuita, sia Massimo che il compagno sono fuori posizione e faticano a rincorrere la palla. A Patrizia ricordano le falene stordite dalle luci notturne. Punto per la Svezia.
Il servizio successivo dell’uomo in tuta acetata finisce diritto sulla schiena del compagno di squadra, che urla scomposto portandosi la mano libera sul punto dell’impatto.
«Corrado ma sei impazzito?»
«E ho sbagliato! Non è facile oggi, fa troppo freddo.»
Il custode è sempre più divertito.
«Non li ascolti, quando fa caldo non migliorano», dice rivolto a Patrizia.

Il secondo tentativo di servizio atterra nella porzione di campo occupata da Massimo, ma lui, drammaticamente, non riesce a intercettare la palla con la racchetta. Patrizia aggiorna l’immagine delle falene stordite: adesso Massimo si muove come un moscone affannato nei quattro angoli del campo. Non ci sono molte opzioni: o viene anticipato da uno slancio del compagno di squadra, oppure viene chiamato un “fuori” salvifico di cui la Svezia non si fida mai abbastanza.
«Ma giocano sempre così?» chiede Patrizia al custode.
«Già. Il maestro Ruggiero non può fare miracoli, si limita a insegnare le basi, però sono molto competitivi in questo torneo. Sarà per i premi.»
«E cosa fanno una volta che sono eliminati?»
«Si parcheggiano nell’altro campo e palleggiano in attesa che qualcuno si azzoppi e vengano ripescati.»
Patrizia non risponde e il custode riprende a parlare: «È un torneo amatoriale, si impegnano molto e questo basta no? Ma poi non sono tutti così male, qualcuno esibisce pure dei gesti atletici interessanti. Solo che quelli scarsi sono i più competitivi, mica me la spiego questa cosa. E sono sbruffoni, discutono su ogni punto».
Il gioco in campo non è ancora ripreso, è di nuovo Massimo al servizio e sta scegliendo la pallina giusta da un tempo infinito.
«Guardi lui» continua il custode infilando un dito nella rete, «due ore per scegliere ‘sta pallina. E tira! Tanto sei sempre scarso» conclude indicando Massimo.
Patrizia si sente mancare per la vergogna e risponde con voce flebile: «Eh, non è un campione».
«Lui il peggiore di tutti. È solo uno pieno di sé».
«Mi dispiace, non lo sapevo» dice Patrizia sconsolata. La mano destra molla la presa sul brandello di tasca che si riapre e casca verso il basso.
«Mica è colpa sua signora, lei è venuta a vedere suo marito. Ma chi è? Quello con la tuta blu?», chiede il custode, ma lei gli ha già voltato le spalle e sta andando via per fuggire dalla goffa partita di tennis a cui ha assistito, dall’uomo in tuta acetata anni novanta preservata sicuramente da un viaggio nel tempo, da quell’altro che gioca in una tuta blu che sembra un pigiama, dal team Gran Bretagna e il suo nome ridicolo, ma soprattutto scappa via da quel moscone di suo marito che non è capace di coordinare braccio e sguardo per servire una stupida pallina da tennis dopo un anno e mezzo di corsie partite. Si infila in macchina con furia, altri lembi della giacca si impigliano nelle maniglie e con lo sportello segna la fiancata di quella accanto. Chiusa nell’abitacolo scrive un messaggio a Massimo, lancia il telefono sul sedile del passeggero e con la stessa urgenza mette in moto. L’auto risponde al primo colpo di chiave e Patrizia esce dal parcheggio in fretta lasciando dietro di sé una nuvola di polvere.

Massimo esce dal circolo sportivo quaranta minuti dopo, la Gran Bretagna ha perso tutti i set, nessuna rivincita avrebbe potuto sanare il divario. Nel sole si vede il vapore emergere dalla testa umida, sembra stia andando a fuoco; la sua sagoma è inclinata in avanti per trattenere meglio la tracolla del borsone che gli scivola sulla spalla cadente. Indossa una tuta nera, mentre la giacca a vento celeste è sotto il braccio. Si accorge subito che di Patrizia non c’è traccia in tutto il parcheggio, allora esce per affacciarsi al cancello d’ingresso, ma lei non è nemmeno lì. Pesca il cellulare dalle tasche del borsone continuando a scrutare la strada e quando abbassa lo sguardo sul display illuminato visualizza la notifica. Il messaggio è generico.
Ho avuto un contrattempo. A casa trovi il pranzo nel forno.
«Ma dove è finita questa qua» dice Massimo a nessuno in particolare perché nella strada non ci sono altre persone, solo auto in coda. Il compagno di squadra è andato via in scooter, non può nemmeno chiedere aiuto a lui.
«Mannaggia a lei» aggiunge spazientito, e s’incammina sulla strada principale evitando le auto che non badano a lui.

Vista nella luce del sole delle dodici, la sua sagoma nera e storta, con la testa che si guarda rapida intorno in ogni direzione, assomiglia proprio a quella di un grosso moscone.

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