Renata Vattelapesca, Catherine Guérard

copertina del libro renata vattelapesca, con la testa di un asino che esce da una finestra aperta

Nel 1967 il romanzo Renata Vattelapesca (in originale Renata n’importe quoi) di Catherine Guérard risulta tra i finalisti del Goncourt, il più importante premio letterario francese. Quando fu il momento di annunciare il titolo del libro vincitore, dal ristorante Drouant nel secondo arrondissement di Parigi, fu fatto il nome di André Pieyre de Mandiargues, con La Marge (Il margine nell’unica edizione Feltrinelli del 1968). Guérard e la sua Renata scivolarono nell’oblio. Dopo Renata Vattelapesca, infatti, il suo secondo romanzo preceduto da Ces princes, Guérard non pubblico più nulla e morì nel 2010. La giornalista e scrittrice, nascosta dietro uno pseudonimo perché in realtà di cognome faceva Dreyfus, con poche altre pubblicazioni con altri alter ego, torna alla ribalta nel 2021, quando l’editore francese Chemin de fer ripubblica il romanzo e vince il premio Mémorable nel 2022, destinato alle opere riscoperte. Nel 2024 tocca a Ventanas edizioni portarlo per la prima volta in Italia, nella traduzione di Paola Vallatta.

Renata è la protagonista assoluta di questo romanzo breve, ma talmente breve che è composto da una frase sola, ma lunga 183 pagine, in cui tutta la vicenda si dipana senza pause e senza noia perché l’impressione è quella di essere nella testa di Renata/Catherine e seguirla nella ricerca della libertà. Niente punti, né altri segni d’interpunzione a parte le virgole. Si legge prendendo un bel respiro all’inizio e si prosegue in apnea, possibilmente in una sola sessione di lettura, al massimo due, inseguendo il rimuginare di Renata. Chissà se anche Guérard l’ha scritto in una sola sessione, al massimo due. 

Il romanzo si apre con un dialogo a tre fra Renata, di cui non conosciamo ancora il nome, e la coppia che le ha dato lavoro come domestica, i signori Boisseneau. Ha appena comunicato loro che ha intenzione di andarsene, anche se non sa dove, e nello sconcerto e nel trambusto generale non lo capisce nemmeno chi legge. Dove vai, Renata, così di fretta senza una valigia, senza una meta, senza dare spiegazioni a nessuno? È Renata stessa a rispondere: 

non volevo più parlare con quella portinaia né parlare con nessuno per un po’ di tempo, volevo pensare alla mia libertà, senza chiacchierare, senza parlare, è curioso la gente parla tutto il tempo senza sapere se vi infastidisce se vi disturba, e io avevo voglia di silenzio non di silenzio senza rumore ma di silenzio dalle chiacchiere, e pensavo La libertà è anche il silenzio, e mi dicevo Sono libera, sono libera, con il silenzio e il sole ed è come se fossi in vacanza e se c’è la pioggia non m’importa

E poi Renata va davvero via, anche se non sa dove, ma sale su un mezzo qualsiasi diretto dappertutto:

Non è vita dover andare da qualche parte, ho pensato, il bello è non sapere dove si va e neppure cosa si farà, La vita dovrebbe essere sempre così, ho pensato, e non svegliarsi alle sette, alle otto

dar da mangiare ai polli, alle nove prendere la metro, alle dieci scuotere i tappeti, alle undici portare un pacco alla posta, e così via tutto il giorno

Per Renata il valore più importante, l’assoluto a cui si dovrebbe tendere è la libertà: libertà di partire, lasciare la propria vita, portarsi appresso solo qualche cartone e tante lettere, e vagare per Parigi, tra strade, alberghi e panchine. Non vale nulla nemmeno il suo nome, infatti quando a metà romanzo circa gli viene chiesto in un incontro fortuito lei risponde Renata Vattelapesca, e quello va via soddisfatto. È tutto assurdo con Renata, ma ha anche profondamente senso. Anche queste sue lettere trascinate come bene prezioso e imprescindibile, ma mai consultate e spesso lasciate sotto la pioggia. Pare fossero una rappresentazioni delle lettere che la scrittrice si scambiava con il suo amato Paul Guimard, con cui aveva avuto una relazione, ma chi lo sa. Anzi, no, lo sa solo Renata. Ogni tanto si chiede anche dove possa essere Paul, l’autore di quegli scritti, ma realizza presto che non ha senso cercare qualcuno che non vuole farsi trovare. Meglio concentrarsi sulla libertà. E quindi anche per Parigi, Renata prende lettrici e lettori a braccetto e li trascina nei suoi ragionamenti, un viaggio che in realtà è nella sua testa che cerca il canto degli uccelli, cieli grandi e fugge da ogni costrutto e simulacro che possano confinare i suoi bisogni. L’unico dettaglio controllato del romanzo è la prosa, meravigliosamente calibrata senza affanni apparenti, solo fluidità di pensieri. Bisogna avere una maestria particolare per arrivare a questa prosa, meno male che qualcuno l’ha ripescata dalle ragnatele del tempo e della narrativa femminile bistrattata, snobbata, ignorata da chi la letteratura la commenta ma non la legge tutta, solo quella degli uomini.

Renata, alla fine, conquista il suo cielo, il suono del canto degli uccelli e un bosco in cui esistere libera come una donna che abbandona la sua vita già stabilita, costretta nei binari del lavoro, delle relazioni, delle aspettative e delle sovrastrutture di una società che non ha mai pensato a lei come individuo senziente, ma come pedina di un gioco a cui non era stabilito che potesse partecipare. Sii libera per sempre, Renata.

Diluvio di Stephen Markley

Copertina del libro Diluvio di Stephen Markley fotografato in una libreria.

Quando Stephen Markley esordiva con Ohio, Diluvio già esisteva in multiple versioni. Un progetto ambizioso che ha impiegato più di dieci anni per essere completato, un primo manoscritto di 1500 pagine che poi è diventato il romanzo di 900 pagine uscito nelle librerie statunitensi (la versione italiana ne ha 1300 ed è stata pubblicata da Einaudi nella traduzione di Manuela Francescon e Cristiana Mennella). Stephen King l’ha definito un classico moderno, l’endorsement non poteva essere più promettente, ma pur rimanendo Markley uno scrittore di talento, non si potrebbe gestire un romanzo di questa portata e i suoi sette personaggi principali altrimenti, il risultato è che Diluvio è troppo di tutto: troppe pagine, troppi personaggi, troppa ambizione. E pure se è stato presentato come un monito al futuro del pianeta, con delle inquietanti e accurate anticipazioni degli eventi del 2025, alla fine ci si chiede se questo modo di raccontarlo sia davvero efficace.

Copertina del libro Diluvio di Stephen Markley fotografato in una libreria.
Foto di Alessia Ragno.

Sette personaggi principali connessi da una sola catastrofe, quella climatica, che si dispiega in trent’anni di storia statunitense (dal 2013 al 2040 circa) e un inasprimento generale delle condizioni di vita, ma anche del clima sociale e politico. Ognuno dei protagonisti reagisce come può, ma ognun* è inadeguat* a suo modo. Spiccano su tutti lo scienziato Tony Pietrus, l’esperto che diventa nemico pubblico, e il filo conduttore della narrazione, Kate Morris, sfacciata, aggressiva, impossibile, da Markley descritta come eroina femminista, ma solo nel senso che un uomo sa dare questa definizione.

L’analisi completa è su L’Indiependente.

Per approfondire

Stephen Markley parla del risultato delle elezioni americane e di Diluvio per Climate Majority Project.

Diluvio recensito sul Guardian.

Diluvio sul NYTimes.

Martire! di Kaveh Akbar

Romanzo Martire! di Kaveh Akbar fotografato sullo scaffale di una libreria

Romanzo Martire! di Kaveh Akbar fotografato sullo scaffale di una libreriaCyrus Shams è un giovane poeta iraniano-americano, nato a Teheran e arrivato nell’Indiana col padre a due anni a seguito della morte della madre nel disastro aereo del volo iraniano abbattuto per sbaglio da una nave da guerra americana, nel 1988 durante la guerra Iran-Iraq. È il protagonista del romanzo Martire!, esordio del poeta iraniano-americano Kaveh Akbar, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo nella traduzione di Chiara Spaziani.
Cyrus, un passato di dipendenze da alcool e droga alle spalle, si imbarca in un progetto sul martirio, nel senso più secolare e pacifista della parola, per cui scrive poesie e dialoghi immaginari su martiri del passato e coinvolgendo anche i genitori. La sua ricerca del senso della morte e della vita lo porta, poi, a New York durante l’ultima performance dell’artista Orkideh, che consegna la sua di morte a chiunque voglia parlarle.
Con una prosa immaginifica e brillante, Akbar costruisce un romanzo accorato, serio e comico allo stesso tempo, con una cura particolare per le parole che si incastrano in una sequenza che spicca nel panorama letterario contemporaneo e che racconta gli Stati Uniti dal punto di vista di una generazione che tentano con ogni mezzo, e inutilmente, di soffocare.

L’analisi del romanzo è su L’indiependente.

Per approfondire

Kaveh Akbar in conversazione con Clint Smith nella libreria Politics and Prose.

Il poeta nell’intervista con Joseph Earl Thomas.

La recensione di Martire! su Npr.

Martire! sul New York Times.

 

L’insegna luminosa

Bari strada con nebbia
Sfiancato dal dibattito che più l’ha coinvolto nei giorni natalizi, ovvero se a Bari facesse freddo davvero o si trattava di una parvenza d’inverno, concentrato soprattutto sul ruolo dell’umido capace di abbassare la temperatura percepita e raggiungere le ossa gelandole dall’interno, oppure banale patina di goccioline d’acqua appiccicate a ogni auto, edificio e persino sul portone di casa, il giovane P. passeggia da solo nella nebbia, la novità metereologica dell’anno appena iniziato. A vederla appare candida e fradicia e più volte P. tenta di afferrarla con una mano per capirne la consistenza, ma più si avvicina e più quella si ritrae dal suo tocco bambino. Quello che deduce lo immalinconisce: se gli oggetti lontani appaiono ovattati nei contorni ed emergono con pudore a ogni passo di lui, le immediate vicinanze mantengono l’apparenza spoglia e priva di mistero. È la solita vita di P. che non si arrende alla nebbia.

Bari strada con nebbiaNon ci sono altre anime in giro, persino il bar è deserto, ma sempre illuminato con entusiasmo. Il centro esatto delle coreografie di LED multicolore è una stella grande quanto l’ingresso, uno stargate natalizio che a P. è piaciuto dal primo momento in cui l’ha visto. Ha provato anche a cercarne una versione più contenuta per il suo balcone di casa, ma la più piccola, alta come un bambino, costava una fortuna. Con cento euro di lucine, ci aveva ragionato a fondo, avrebbe dovuto rinunciare a dieci cene con la pizza d’asporto, tre pranzi con gli amici quando li avrebbe rivisti, undici film al cinema da solo e persino sette spese essenziali dal fruttivendolo vicino casa. Sconfitto dal rigore logico dei conti, P. aveva optato per una mesta serie di luci bianche alimentate da tre pile stilo, rivelatesi presto incapaci di reggere la pressione del timer dell’accensione notturna. Si sono affievolite già intorno al dieci dicembre, con somma mestizia di P. e forse anche del quartiere intero che, senza dichiararlo, contava anche sul suo balcone addobbato a festa. A pensarci adesso, a passeggio nella nebbia, gli si pianta in mezzo alla fronte una tristezza malsana che immagina evidente come un’insegna luminosa che lo irride. Eccolo qui, l’uomo triste senza luci e senza amici in questa città che non gli appartiene, ma scritto con mille luccicanti LED multicolore. Nella vergogna, lo consola solo il pensiero che, in una notte come questa, la nebbia ne attenuti i contorni così da renderlo finalmente libero. P. esprime, allora, il primo desiderio dell’anno e lo fa con la voce solenne che rimbomba nella testa: «Vorrei raccogliere questa nebbia bianca e conservarla nelle tasche per attenuare i contorni dell’insegna luminosa che ho in mezzo alla fronte e far credere che sia una stella, la più brillante del quartiere, la più colorata della città». Conclusa la formula magica, P. si concede un ultimo tentativo: allunga le braccia davanti a sé e tende le mani fredde verso il bianco in fondo alla strada. Finalmente la sente. È nebbia lattiginosa e fresca, proprio come la immaginava, soffice come cotone, voluminosa come ovatta. Ne pizzica giusto un assaggio, l’essenziale per trasformare in stella la sua insegna luminosa personale, e lo ripone nelle tasche. Poi, con i talloni sollevati e la testa più leggera, riprende a camminare verso casa abbracciando il bianco che gli viene incontro.

Foto di Alessia Ragno.

I veleni dell’Iowa: Erediterai la terra di Jane Smiley

Copertina del romanzo Erediterai la terra: una donna bionda di spalle osserva un campo di grano

Copertina del romanzo Erediterai la terra: una donna bionda di spalle osserva un campo di granoÈ il 1979 nella fittizia contea di Zebulon in Iowa, cuore del Midwest statunitense, e Larry Cook decide di suddividere i suoi mille acri di possedimenti alle tre figlie, Ginny, Rose e Caroline, in un passaggio di consegne che ricalca il Re Lear di Shakespeare. È questa l’idea di partenza di Erediterai la terra, il romanzo di Jane Smiley del 1991, vincitore del premio Pulitzer, tornato nelle librerie italiane nell’edizione de La Nuova Frontiera tradotta da Raffaella Vitangeli.
Ispirazione shakespeariana, ma svolgimento tutto originale per un romanzo che è un’epopea moderna che riverbera anche nel contemporaneo: è in quella stessa società patriarcale, violenta e oppressiva che si fondano le radici degli Stati Uniti attuali. Smiley porta sullo stesso piano narrativo temi differenti: intanto la farmer crisis degli anni ’80 nel cuore agricolo degli Stati Uniti, la svolta femminista di una storia antica (il Re Lear per l’appunto), e la costruzione di personaggi complessi che affondano prima nell’inedia, poi nella disperazione e infine riconquistano il loro posto nel mondo, ma a caro prezzo. Su tutte e tutti svetta Ginny, la voce narrante, dapprima conciliante fino quasi a diventare martire del padre violento, e poi fenice che risorge dalla distruzione della sua famiglia.

Jane Smiley fotografata da Irene Medina, per gentile concessione de La Nuova Frontiera.
L’analisi del romanzo e della poetica di Jane Smiley è su L’indiependente.

Per approfondire

King Lear in Zebulon County, la recensione sul New York Times nel 1991

A talk with Jane Smiley

John Updike scrive di Jane Smiley

Due interviste di Jane Smiley in occasione del lancio dell’opera teatrale tratta da Erediterai la terra a Des Moines in Iowa.
Jane Smiley alla Des Moines Metro Opera 
Alla Iowa Pbs

Donne nella nebbia di Laura Acero

Donne nella nebbia della scrittrice Laura Acero, tradotto da Serena Bianchi, è la mia introduzione fortunata al catalogo di Ventanas.
Siamo in Colombia, per la precisione nel páramo di Sumapaz, alle porte di Bogotà. un luogo antico per la sua storia, ma estremamente moderno per criticità. Ogni páramo, territorio tipico degli altopiani tropicali al di sopra dei tremila metri diffusi in Centro America, ma anche nel nord-ovest africano, è minacciato duramente dalla crisi climatica in atto, ma ancora di importanza cruciale per la Colombia, più in particolare per Bogotà nel caso di Sumapaz, perché trattasi dell’unico serbatoio idrico della capitale ora minacciato da urbanizzazione e cambiamento climatico. 

Una donna, di cui non viene mai svelato il nome, è in viaggio verso Sumapaz, per condurre un laboratorio di scrittura con le donne del luogo, ma anche per distaccarsi da una maternità che l’ha stravolta. Un romanzo breve e importante intanto per l’ambientazione, cruciale per la storia del paese, ma anche nell’ottica ecologica vista l’importanza di certi ecosistemi per la sopravvivenza umana, ecosistemi puntualmente minacciati dal cambiamento climatico. Ma Donne nella nebbia è importante anche per il ritratto di un mondo arcaico e, ovviamente, patriarcale che opprime e abusa. A contrastarlo un’unica forza: le comunità femminili come quella che va a formarsi per il laboratorio di scrittura. 

L’analisi completa del romanzo è su L’indiependente.

La preda, Damon Galgut

Copertina de La Preda, romanzo di Damon Galgut. un paesaggio oscuro di campagna e una croce in primo piano.

Copertina de La Preda, romanzo di Damon Galgut. un paesaggio oscuro di campagna e una croce in primo piano.E/o edizioni pubblica in Italia La preda, un libro di Damon Galgut del 1995, quando nella prima metà della sua carriera di scrittore, e ancora lontano dal Booker Prize conquistato nel 2021 con La promessa, l’autore sudafricano esplorava il suo habitat naturale, ovvero le storie di uomini tormentati in un Sudafrica spietato. La preda è un romanzo breve e circolare, che narra il dualismo atavico tra vittime e carnefici e ne esplora le contraddizioni. La vicenda è quella di un uomo, un fuggitivo senza nome, che nella sua fuga incontra un prete in viaggio verso la sua nuova congrega. A seguito di un alterco fra i due, il fuggitivo uccide il prete e ne assume l’identità. Il suo futuro prossimo, però, è minato continuamente dal senso di colpa e da drammatiche coincidenze. Echi immediati di Uomini e topi di Steinbeck, con una miseria più moderna, ma non certo meno tragica, e un’ambientazione sviluppata sia nel reale che nel piano onirico, luogo in cui gli spettri del senso di colpa sono più difficile da arginare.

L’analisi completa del romanzo è su L’Indiependente.

La favola horror dei millennial secondo Sarah Rose Etter

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San Francisco

In un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del suo secondo romanzo Ripe (in Italia Qui non c’è niente per te, ricordi? edito da La Nuova Frontiera nella traduzione di Lorenzo Medici), Sarah Rose Etter spiega come per lei l’incipit, o meglio ancora la frase iniziale, sia fondamentale per definire il tono di una storia, nonché responsabile del carico emotivo da distribuire nelle pagine a seguire. Nel caso di questo romanzo un uomo si dà fuoco in una strada periferica di San Francisco; non c’è modo di tornare indietro dopo un impatto del genere che dà il via all’escalation di dolore della protagonista e voce narrante.

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San FranciscoLei si chiama Cassie è una dipendente di una grossa azienda tecnologica della Silicon Valley, ritratta, nell’incipit, mentre si confonde nella folla del ritorno a casa di quelli che lei chiama Credenti, che in questo caso nulla hanno a che fare con la religione: il loro unico credo è il profitto. Nella sua disperazione fanno incursione l’uomo e il suo gesto estremo, e l’angoscia di Cassie monta e assume le sembianze di un placido e minaccioso buco nero nel senso puramente astronomico del termine, che fluttua sopra la sua testa e cambia in dimensione a seconda dell’umore di lei. Cassie e il buco nero sono un sistema binario, per mutuare ancora un termine dell’astrofisica, due entità inscindibili attratte dalla forza gravitazionale che le tiene insieme soprattutto nel dolore. È questo il guizzo narrativo più riuscito di un romanzo non completamente nuovo, ma comunque sincero e contemporaneo.
Cassie spera di confondersi tra i Credenti anche grazie alla droga che le consente di mantenere i ritmi richiesti dal lavoro nella culla del tech occidentale, ambiente tossico privo di scrupoli e di umanità. Ed è la tossicità della office culture uno dei nodi della vicenda che mostra il sistema capitalista statunitense al suo peggio. Qui non c’è niente per te, ricordi? segue la progressiva perdita di umanità di Cassie e delle pochissime persone che le gravitano intorno, perché l’isolamento di una grande città è l’altra piaga sociale di questa parte di Stati Uniti. Tra droga, relazioni superficiali con amiche e amanti, e abusi dei capi sul posto di lavoro, Cassie e il suo buco nero navigano le giornate col rimpianto di ciò che hanno lasciato per trasferirsi a San Francisco e di ciò che potrebbe essere in un futuro che sfugge inghiottito dagli albori della pandemia di Covid, il cambiamento climatico, i disordini sociali in città.

Ripe è il secondo romanzo di Etter, definita dal magazine statunitense Nylon «una profeta per le ragazze tristi», nuova esponente della cosiddetta sad girl lit, la letteratura delle ragazze tristi, che racconta proprio la desolazione di millennial e gen z in un mondo divorato dal sistema capitalista mentre finge di sostenerlo. Argomenti toccati ovviamente, anche dall’altra profeta millennial, Sally Rooney, da Ottessa Mosfegh, ma anche da esordi di pregio La gabbia dei conigli di Tess Gunty, ma tutto riporta alla sad girl lit originaria, ovvero le grandi aspirazioni di Etter: Sylvia Plath e Joan Didion. Due scrittrici che, è la stessa Etter a dirlo, non hanno mai avuto paura di raccontare la tristezza delle donne di cui hanno scritto senza mai ricorrere all’espediente letterario della redenzione.
Cassie, allora, a 33 anni e un anno di Silicon Valley alle spalle si mantiene a galla nel mare che è diventato la sua tristezza «aspettando che il senso della vita mi si schiuda davanti».

I non Credenti come me sono qui nel tentativo di issarsi […] negli strati più rarefatti del benessere. Siamo venuti qui per reinventarci, con dietro famiglie che ci spingono ad avanzare, mani sulla schiena che ci esortano ad andare ad Ovest, a trovare l’oro. 

Ma ad aspettarci, qui ad Ovest, ci sono interminabili ore di pendolarismo, un susseguirsi di email e notifiche, progetti segretissimi e scadenze impossibili. Non importa se sei un Credente oppure no: la pressione atmosferica di San Francisco ti cambia, ti plasma, fa di te un nuovo tipo di lavoratore. Mi ha cambiata.

In questa vita, che a un’analisi più attenta è solo sopravvivenza, Cassie cataloga dettagli scientifici sul suo buco nero personale e i ricordi mai felici nei frequenti stati dissociativi innescati dalla sofferenza mentale, il tutto per dare a sé stessa l’illusione che qualcosa si possa davvero controllare. Il paradosso è che il buco nero è l’unica entità ad avere compassione di lei fin da bambina, cresciuta da una madre invalidante e aggressiva e un padre emotivamente distante. Fugge allora dalla famiglia, ma tutto ciò che trova è un sistema produttivo esasperato, un marketing bugiardo e standard disumani, il pozzo senza fondo del sistema occidentale che sopprime la dimensione umana della vita.
Etter narra con perizia, e, unico difetto, una leggera ripetitività, la costruzione dell’ansia di Cassie e scrive la favola horror della generazione millennial che si è preparata per un futuro che non è mai arrivato come glielo hanno raccontato e tutto ciò che è rimasto e ridotto in macerie. In questo Etter centra il segno: l’ingresso nella vita adulta è traumatico e reso buio da un buco nero che si allarga a dismisura.

Non è sempre così che inizia l’età adulta? Sei convinta di diventare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. All’inizio, nuoti con veemenza contro la corrente, il corpo che si sforza finché i muscoli non cedono, finché non ce la fai più a spingere, finché non smetti di lottare e galleggi, lasciando che l’acqua ti riporti a riva, dove il resto del mondo è già in ufficio, a sgobbare sotto il candore di una luce perennemente diurna e produttiva.

Ancora più interessante la sua struttura che si svela nella lettura e segue gli strati della melagrana ritratta nelle prime pagine, più evidente nell’edizione statunitense: dall’epicarpo di Cassie, ovvero il suo lavoro, il ruolo nella società e nella famiglia di origine, si viaggia verso il suo io più profondo fino al cuore, dove il dolore risiede. Un romanzo concentrico che trova nel finale la sua realizzazione ottimale, con delicatezza e un cenno al surreale che lasciano, a chi legge, la libertà di interpretare in autonomia il futuro di Cassie.

Visione notturna, il saggio di Mariana Alessandri

Copertina monocolore del saggio di Mariana Alessandri, Visione notturna, fotografato in una libreria.

Copertina monocolore del saggio di Mariana Alessandri, Visione notturna, fotografato in una libreria.Visione notturna, scritto dalla filosofa Mariana Alessandri e pubblicato da nottetempo nella traduzione di Sara Marzullo, è un saggio brillante, come brillante è il punto di partenza dell’intera dissertazione: e se i cosiddetti momenti bui, carichi di emozioni complesse spesso definite solo con accezione negativa, non fossero un male assoluto? Cosa cambierebbe se si abbandonasse la retorica della luce e del pensiero positivo come unici strumenti per costruire una vita degna di essere vissuta? Alessandri prova a depotenziare il cono di luce forzata in cui ci costringiamo a vivere, pena il fallimento totale, senza mai invalidare il discorso sulla salute mentale e le cure correlate (psicologiche, sociali e farmacologiche) nel caso in cui queste emozioni siano invalidanti. L’obiettivo finale, però, cambia: non più il mito della felicità assoluta, con la positività che appiattisce e uniforma, ma uno standard nuovo in cui si parla di certi stati emotivi «in modi che non ci facciano sentire privi di dignità». È meglio, quindi, impiegare il tempo a ragionare sulla rabbia, per esempio, e la sua utilità, che esiste ed è un concetto meno banale di ciò che si potrebbe immaginare. E lo stesso vale per il dolore, la tristezza, l’ansia, per dimostrare che nel buio potremmo non solo dimorare, ma anche esplorare nuove forme di conforto. Ogni capitolo è dedicato a un’emozione e a pensatrici e pensatori precursori di Alessandri che ne hanno parlato nella storia della letteratura e della filosofia. Dalla loro saggezza deriva da una consapevolezza nuova: «Una vita senza dolore […] è priva anche di significato».

Nel capitolo conclusivo c’è l’invito esplicito a esercitare la visione notturna citata dal titolo, a stare nel buio, accoglierlo ed elaborarlo in un mondo in cui «una sola giornata brutta significa che abbiamo fallito», in cui il valore più prezioso è la produttività e il lavoro svolto definisce un’intera esistenza. Contestare questa logica capitalista è un grande atto di coraggio e di liberazione, ma la rivoluzione della visione notturna sta anche nella possibilità di appropriarsi del pensiero di Alessandri, contestarlo e discuterlo dietro suo esplicito invito, per inventare nuove metafore del proprio buio, integrarle con le cure già citate in un contesto sociale accogliente e non giudicante. Visione notturna è, quindi, un saggio che pur raccontando il dolor, come lo chiama la sua autrice, fa sentire compres* e uman* e di questi tempi è una sensazione impagabile.

Per approfondire

Per approfondire tematiche affini sulla salute mentale senza il bias di quella che Mariana Alessandri chiama la metafora della luce:

  • Soffro dunque siamo – Il disagio psichico nella società degli individui di Marco Rovelli per minimum fax
  • Il fronte psichico – Inchiesta sulla salute mentale degli italiani di Jessica Mariana Masucci per nottetempo
  • Realismo Capitalista di Marl Fosher, Nero edizioni

Il suo odore dopo la pioggia, Cèdric Sapin-Defour

Un profilo di cane bovaro del bernese in bianco e nero sulal copertina del romanzo Il suo odore dopo la pioggia

Un profilo di cane bovaro del bernese in bianco e nero sulal copertina del romanzo Il suo odore dopo la pioggiaHo due cani e ciò fa di me la lettrice ideale di Il suo odore dopo la pioggia di Cédric Sapin-Defour, pur consapevole della direzione verso la quale mi avrebbe portata. Volevo sentirmi raccontare, da parole che non fossero le mie, l’amore grande e «tenace», come lo definisce l’autore, per quattro zampe rumorose, una coda mobile e un tartufo umido. Ciò che ho trovato in questo libro non mi ha delusa: un punto di vista in cui riconoscermi, ma anche dal quale discostarmi, perché noi “padronə”, se mi si lascia passare il termine obsoleto, siamo tuttə ugualə eppure tuttə diversə, come lo sono i cani che ci accompagnano per parte della nostra esistenza. Il libro, però, non si esaurisce parlando solo a chi ha un cane, anzi, esplora la relazione delle persone con l’intero mondo animale ed è una lezione per tutte e tutti.
Il suo odore dopo la pioggia è un libro maschile – uomo chi lo scrive, maschio il cane, Ubac -, a dimostrarlo alcune frasi, definizioni, metafore e piccoli episodi, uno su tutti la rissa che Ubac seda tra il padrone e due uomini incontrati sulla strada di casa. Non credo che mai una delle mie due cane (le chiamo così, al femminile) mi difenderebbe mai in un alterco. Nella consapevolezza che la dinamica di relazione col proprio cane è personale, e convinta che essere una donna con due cani femmina mi renda differente (non migliore, solo differente) da un uomo accompagnato dal suo cane maschio, ciò che questo libro coglie in pieno è la felicità di una relazione mai replicabile, istintiva e totalizzante e la consapevolezza che senza le mie cane io non sarei la persona che sono adesso, perché loro insegnano a me più di quanto io insegni a loro. Sapin-Defour si dedica con trasporto a circostanziare questo scambio biunivoco cane-uomo e ciò che ne risulta è un libro che è un memoir con vanità, limiti e convinzioni, ma anche una cogitazione filosofica altissima sul senso delle cose e la loro finitezza. E alla finitezza dei cani non ci si può abituare mai. «Tra l’adozione e il lutto c’è un soffio», scrive l’autore, e io mi affanno di continuo a raccogliere tutto il fiato possibile perché ogni fibra vitale delle mie cane rimanga sempre con me. “Il suo odore dopo la pioggia” è anche una lettera d’amore per l’«energia sfavillante» di un cane che soccombe alla sua finitezza, così come si arrenderanno tutti gli altri cani su questa terra arcigna. «Riconoscerei il tuo odore dentro l’arca di Noè», scrive Sapin-Defour nel picco della sua tristezza, e io aggiungo che riconoscerò anche le voci e il tocco delle mie cane, così come loro riconosceranno la mia voce e il mio tocco, ed è questa reciprocità che ci farà vivere insieme per sempre.