Nel 1967 il romanzo Renata Vattelapesca (in originale Renata n’importe quoi) di Catherine Guérard risulta tra i finalisti del Goncourt, il più importante premio letterario francese. Quando fu il momento di annunciare il titolo del libro vincitore, dal ristorante Drouant nel secondo arrondissement di Parigi, fu fatto il nome di André Pieyre de Mandiargues, con La Marge (Il margine nell’unica edizione Feltrinelli del 1968). Guérard e la sua Renata scivolarono nell’oblio. Dopo Renata Vattelapesca, infatti, il suo secondo romanzo preceduto da Ces princes, Guérard non pubblico più nulla e morì nel 2010. La giornalista e scrittrice, nascosta dietro uno pseudonimo perché in realtà di cognome faceva Dreyfus, con poche altre pubblicazioni con altri alter ego, torna alla ribalta nel 2021, quando l’editore francese Chemin de fer ripubblica il romanzo e vince il premio Mémorable nel 2022, destinato alle opere riscoperte. Nel 2024 tocca a Ventanas edizioni portarlo per la prima volta in Italia, nella traduzione di Paola Vallatta.
Renata è la protagonista assoluta di questo romanzo breve, ma talmente breve che è composto da una frase sola, ma lunga 183 pagine, in cui tutta la vicenda si dipana senza pause e senza noia perché l’impressione è quella di essere nella testa di Renata/Catherine e seguirla nella ricerca della libertà. Niente punti, né altri segni d’interpunzione a parte le virgole. Si legge prendendo un bel respiro all’inizio e si prosegue in apnea, possibilmente in una sola sessione di lettura, al massimo due, inseguendo il rimuginare di Renata. Chissà se anche Guérard l’ha scritto in una sola sessione, al massimo due.
Il romanzo si apre con un dialogo a tre fra Renata, di cui non conosciamo ancora il nome, e la coppia che le ha dato lavoro come domestica, i signori Boisseneau. Ha appena comunicato loro che ha intenzione di andarsene, anche se non sa dove, e nello sconcerto e nel trambusto generale non lo capisce nemmeno chi legge. Dove vai, Renata, così di fretta senza una valigia, senza una meta, senza dare spiegazioni a nessuno? È Renata stessa a rispondere:
non volevo più parlare con quella portinaia né parlare con nessuno per un po’ di tempo, volevo pensare alla mia libertà, senza chiacchierare, senza parlare, è curioso la gente parla tutto il tempo senza sapere se vi infastidisce se vi disturba, e io avevo voglia di silenzio non di silenzio senza rumore ma di silenzio dalle chiacchiere, e pensavo La libertà è anche il silenzio, e mi dicevo Sono libera, sono libera, con il silenzio e il sole ed è come se fossi in vacanza e se c’è la pioggia non m’importa
E poi Renata va davvero via, anche se non sa dove, ma sale su un mezzo qualsiasi diretto dappertutto:
Non è vita dover andare da qualche parte, ho pensato, il bello è non sapere dove si va e neppure cosa si farà, La vita dovrebbe essere sempre così, ho pensato, e non svegliarsi alle sette, alle otto
dar da mangiare ai polli, alle nove prendere la metro, alle dieci scuotere i tappeti, alle undici portare un pacco alla posta, e così via tutto il giorno
Per Renata il valore più importante, l’assoluto a cui si dovrebbe tendere è la libertà: libertà di partire, lasciare la propria vita, portarsi appresso solo qualche cartone e tante lettere, e vagare per Parigi, tra strade, alberghi e panchine. Non vale nulla nemmeno il suo nome, infatti quando a metà romanzo circa gli viene chiesto in un incontro fortuito lei risponde Renata Vattelapesca, e quello va via soddisfatto. È tutto assurdo con Renata, ma ha anche profondamente senso. Anche queste sue lettere trascinate come bene prezioso e imprescindibile, ma mai consultate e spesso lasciate sotto la pioggia. Pare fossero una rappresentazioni delle lettere che la scrittrice si scambiava con il suo amato Paul Guimard, con cui aveva avuto una relazione, ma chi lo sa. Anzi, no, lo sa solo Renata. Ogni tanto si chiede anche dove possa essere Paul, l’autore di quegli scritti, ma realizza presto che non ha senso cercare qualcuno che non vuole farsi trovare. Meglio concentrarsi sulla libertà. E quindi anche per Parigi, Renata prende lettrici e lettori a braccetto e li trascina nei suoi ragionamenti, un viaggio che in realtà è nella sua testa che cerca il canto degli uccelli, cieli grandi e fugge da ogni costrutto e simulacro che possano confinare i suoi bisogni. L’unico dettaglio controllato del romanzo è la prosa, meravigliosamente calibrata senza affanni apparenti, solo fluidità di pensieri. Bisogna avere una maestria particolare per arrivare a questa prosa, meno male che qualcuno l’ha ripescata dalle ragnatele del tempo e della narrativa femminile bistrattata, snobbata, ignorata da chi la letteratura la commenta ma non la legge tutta, solo quella degli uomini.
Renata, alla fine, conquista il suo cielo, il suono del canto degli uccelli e un bosco in cui esistere libera come una donna che abbandona la sua vita già stabilita, costretta nei binari del lavoro, delle relazioni, delle aspettative e delle sovrastrutture di una società che non ha mai pensato a lei come individuo senziente, ma come pedina di un gioco a cui non era stabilito che potesse partecipare. Sii libera per sempre, Renata.